LINEE GUIDA PER LA DIDATTICA DELLA STORIA DELLA FRONTIERA ADRIATICA

La legge 92/2004, che ha istituito il Giorno del Ricordo, sottolinea la necessità di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Inoltre, la legge auspica la “realizzazione di iniziative dirette a “valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica”.

L’istituzione del Giorno del Ricordo ha di conseguenza stimolato grandemente l’interesse del mondo della scuola per le vicende delle terre dell’Adriatico orientale. Ne è seguita una “domanda di storia” che spesso ha procurato qualche difficoltà agli insegnanti per vari motivi: la carenza di formazione specifica sull’argomento, largamente sconosciuto in Italia; l’obiettiva difficoltà di destreggiarsi fra le insidie di una storia decisamente complessa; le spinte alla semplificazione provenienti dall’uso pubblico della storia, anch’esso incentivato dalla Giornata Memoriale; le ricorrenti tentazioni di opposti usi politici di quella storia.

Le Linee Guida si propongono, nel pieno rispetto della libertà di opinione e di insegnamento, di fornire ai docenti alcune indicazioni generali su come affrontare la materia con metodo rigoroso e sguardo ampio, evidenziandone l’interesse al di là dei momenti celebrativi.

Le Linee guida si articolano in quattro punti essenziali: La Metodologia, Dove studiare la storia della Frontiera Adriatica, Il Profilo storico, Pedagogia e didattica della Frontiera Adriatica, la cui redazione è stata affidata a docenti esperti della materia. Si rende disponibile inoltre, in Allegato, una serie di Strumenti (cartografia storica, lessico, ipotesi di periodizzazione tematica, percorsi interdisciplinari, riferimenti a prodotti multimediali accessibili in rete con immagini e documenti fruibili) che possano aiutare i docenti medesimi nella costruzione dei percorsi didattici.

  1. PARTE PRIMA: LA METODOLOGIA


    1. PERCHÉ FRONTIERA ADRIATICA? Laboratorio della contemporaneità

      Di solito, nella letteratura in lingua italiana le terre dell’Adriatico orientale vengono sinteticamente denominate “Confine orientale”. Tale formula però, presenta il limite di non tener conto della differenza tra “frontiera” e “confine” che, viceversa, costituisce uno dei cardini per la comprensione delle dinamiche storiche nella medesima area. Mentre infatti i confini sono linee di separazione fra realtà ben definite e risultano assai variabili nel tempo, la frontiera è un’area di ampie dimensioni, entro la quale nel corso dei secoli si sono moltiplicate le linee di confine.

      Quella dell’Adriatico orientale è una tipica area di frontiera e la sua storia è una tipica storia di frontiera: in ciò consiste la sua originalità e, al tempo stesso, proprio tale caratteristica offre l’opportunità di utilizzare la storia vicina della “Frontiera Adriatica” quale occasione per esplorare le dinamiche proprie di altre aree di frontiera più lontane, che hanno svolto ruoli essenziali per le vicende della “grande storia”.

      Per Frontiera Adriatica s’intende quindi l’intera area che dalla Valle dell’Isonzo e dal Golfo di Trieste scende lungo la sponda orientale del mare Adriatico fino alle Bocche di Cattaro - Figura A. Essa comprende la costa, le isole e l’immediato retroterra, delimitato dapprima dal Carso e poi dal crinale delle Alpi Bebie e Dinariche.

      Come tutte le terre di frontiera, quella adriatica è area di sovrapposizione fra periferie di mondi contigui (dove il termine “mondi” indica non solo compagini politiche, ma realtà culturali nel senso più ampio del termine): quello latino, quello germanico e quello slavo, con importanti presenze ungheresi. Il suo segno distintivo, perciò, sono gli incroci e le sovrapposizioni, che in alcuni casi possono generare ricchi patrimoni di umanità e cultura, in altri invece finiscono per innescare conflitti anche terribili. Caratteristica quindi della storia di frontiera è la complessità, e la sua esplorazione in sede didattica va intesa come occasione privilegiata per educare gli studenti all’analisi di realtà complesse, rifuggendo dalle semplificazioni, fonti di continui fraintendimenti.

    2. STORIA REGIONALE O STORIA GENERALE?

      Quella delle terre dell’Adriatico orientale è certamente una storia localizzata e, in quanto tale, generalmente assai poco nota. Il suo studio ha un valore civile specifico, come reintegrazione nella storia d’Italia di una sua parte, importante e drammatica, che per troppo tempo è stata trascurata. Al tempo stesso ha un valore conoscitivo generale, in quanto la sua esplorazione offre la possibilità di affrontare alcuni grandi nodi della storia europea, in particolare dei secoli XIX e XX, partendo da un caso di studio circoscritto, che si presta ad un’analisi in profondità. Non a caso, la storia della Frontiera Adriatica viene considerata, in ambito storiografico, come un “laboratorio della contemporaneità”.

    3. STORIA LUNGA O STORIA BREVE?

      La legge 92/2004 ha concentrato l’attenzione sulla contemporaneità ed in particolare sulle tragedie che hanno segnato la storia degli italiani di frontiera nel corso del XX secolo, come le Foibe e l’Esodo. Tuttavia, la legge stessa ricorda come quelle terribili vicende siano parte di una storia lunga, quella dell’italianità adriatica, che ha costituito una parte importante della più complessiva storia d‘Italia. Ne segue l’opportunità di non limitare le attività didattiche all’esplorazione dei drammi novecenteschi, ma di compiere almeno alcuni affondi di lungo periodo, che possono consentire anche di mettere a fuoco alcune tematiche generali di grande rilievo, come ad esempio quella del ruolo unificante del mare, o quella della funzione svolta in tutto il Mediterraneo orientale dalla lingua veneta.

      Inoltre, l’italianità adriatica non si è creata nel vuoto, ma nell’interazione con altre culture e ciò consente di riflettere sulla natura delle identità, sugli scambi interculturali, come pure sui momenti di tensione generati da conflitti di interessi che assumono anche le forme di conflitti di civiltà.

    4. STORIA O MEMORIA?

      Come tutte le leggi istitutive di giornate memoriali, la legge 92/2004 sottolinea il valore della Memoria. La memoria delle vittime, infatti, ha costituito il principale ancoraggio per evitare che svanisse il ricordo delle tragedie degli italiani della Venezia Giulia, Fiume e Zara nel corso del ‘900, mentre le giornate memoriali svolgono anche la funzione di “risarcimento morale”, seppur sempre incompleto, alle vittime delle grandi tragedie collettive, come quelle degli istriani, fiumani e dalmati viventi nelle terre della Frontiera Adriatica.

      Inoltre, richiamare la necessità della memoria significa riconoscere l’importanza della dimensione umana del passato, intessuta di passioni, dolori, delusioni e speranze: una dimensione personale e comunitaria alla quale accostarsi con simpatia/compassione, rigettando la tentazione di scorgere nello studio delle vicende trascorse soltanto un cumulo di nozioni, date, fatti. Per di più, la focalizzazione sulla memoria suggerisce di introdurre gli studenti all’esplorazione della problematicità della memoria medesima; alla comprensione della sua natura soggettiva e del suo farsi e cristallizzarsi attraverso la rielaborazione dei ricordi; alla discussione del rapporto fra conservazione della memoria, diffusione delle amnesie con le loro patologie, peso del passato ed esigenze di oblio; al riconoscimento dell’esistenza di memorie diverse in rifermento al medesimo fenomeno storico.

      In una prospettiva didattica, peraltro, il recupero della memoria va sempre accompagnato dal riferimento alla storia in quanto disciplina critica, nel cui ambito le fonti della memoria vanno utilizzate alla pari delle fonti di altra natura (documentaria, iconografica, monumentale, letteraria, ecc.). Proprio il dialogo fra il momento della soggettività e dell’empatia, che è proprio delle fonti della memoria, e l’applicazione del metodo storico, che impone il distacco critico dall’oggetto di analisi, può costituire un’occasione privilegiata per attività laboratoriali di conoscenza del passato.

  2. PARTE SECONDA: DOVE STUDIARE LA STORIA DELLE FRONTIERA ADRIATICA

    I processi di varia natura che dal passato lontano fino ad oggi hanno interessato la frontiera adriatica si prestano a venir affrontati nelle scuole di ogni ordine e grado, auspicabilmente in una logica interdisciplinare e multidisciplinare, all’interno di varie discipline d’insegnamento e in particolare in quelle che vengono di seguito illustrate.

    1. EDUCAZIONE CIVICA

      In particolare, l’Educazione Civica appare terreno di elezione per affrontare alcuni dei grandi nodi della storia dell’Adriatico orientale che rimandano a problemi tuttora, anche drammaticamente, assai vivi, come ad esempio: la creazione di identità nazionali in riferimento a criteri variabili (etnico, civico, ecc.); le politiche di nazionalizzazione in territori mistilingui; il trattamento delle minoranze linguistiche e nazionali; le guerre totali e le loro conseguenze; le violenze politiche di massa; gli spostamenti forzati di popolazione; le politiche della memoria; i percorsi di riconciliazione fra popoli già divisi da profondi conflitti; le iniziative condivise di costruzione di una cittadinanza comune europea e, più in generale, i Diritti umani.

      Le tematiche riguardanti la storia dell'Adriatico orientale andrebbero inserite a buon diritto nel curricolo di Educazione Civica che ogni scuola deve stilare, o in mancanza di un curricolo d'istituto, all'interno delle diverse discipline.

    2. STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA

      Nello studio della Storia della Letteratura italiana dalle sue origini ci si imbatte ben presto in autori che per diversi motivi e finalità hanno valorizzato la cultura italiana dell'Adriatico orientale, dagli inizi della storia letteraria, lungo i secoli. Sono da citare in primis Dante Alighieri poi Pier Paolo Vergerio il Giovane, Gian Rinaldo Carli, Niccolò Tommaseo e il suo Dizionario, e, cronologicamente più vicini a noi, Italo Svevo e Umberto Saba.

      Strettamente collegati con le vicende che vedono l'Adriatico come luogo centrale degli interessi europei si citano ancora Ugo Foscolo, reso esule dal Trattato di Campoformido, e Gabriele D'Annunzio, la cui impresa fiumana si può fruttuosamente esaminare sotto vari punti di vista.

      Tra gli scrittori provenienti direttamente dal mondo adriatico si potranno proporre gli scritti di Scipio Slataper, esempio lampante del carattere plurale della regione e di scelta identitaria; Giani Stuparich, eccezionale letterato, scrittore e osservatore della storia e delle vicende dell'area giuliana tra le due guerre e dell'esodo del secondo dopoguerra (vedi anche sezione “Cinema e Teatro”); Paolo Santarcangeli fiumano ed Enzo Bettiza, spalatino; Fulvio Tomizza, Marisa Madieri, Claudio Magris e Nelida Milani, che tanto hanno contribuito, con pagine di altissima letteratura, alla comprensione profonda del tema della frontiera e della cultura italiana adriatica in un'ottica internazionale.

      Enucleare all'interno della Letteratura di frontiera il tema dell'esodo può suscitare interessanti confronti. Per una panoramica europea si consigliano i seguenti testi: Hermann Bahr, Viaggio in Dalmazia, Editoriale FVG 2007; Predrag Matvejevic, Golfo di Venezia,

      Consorzio Venezia Nuova 2005; Predrag Matvejevic, Breviario Mediterraneo, Garzanti 2006; Ferdinand Braudel, Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione, Newton Compton 2002) e per la narrativa straniera su spostamenti forzati di popolazione: Günter Grass, Il passo del gambero, Einaudi 2004; Walter Kempowski, Tutto per nulla, Sellerio 2018; Didò Sotiriù, Addio Anatolia, Crocetti 2022; Ilias Venezis, Numero 31328, Settecolori 2022.

    3. LINGUA E LETTERATURA GRECA/LATINA

      All'interno di queste discipline trova posto lo studio dell'Adriatico orientale in quanto legato ai grandi miti greci degli Argonauti (fuga di Giasone e Medea lungo l'Istro – Danubio – e il Timavo); della formazione delle isole Absirtidi – oggi Cherso e Lussino – nel golfo del Quarnaro e altri.

      Sono da citare anche le grandi scoperte geografiche di epoca greca, nonché la “via dell'ambra”, itinerario commerciale protostorico che collegava il Baltico con l'Adriatico attraverso l'Europa centrale.

      L'imperatore Diocleziano e San Girolamo sono solo due fra gli illustri personaggi di epoca romana che meritano di essere contestualizzati rimarcando la loro provenienza dagli ambienti rispettivamente dalmata e istriano: del primo è visitabile lo splendido palazzo a Spalato; al secondo, nativo di Stridone in Istria, si ascrive la Vulgata – versione in latino della bibbia, usata in ambito ecclesiastico per oltre quindici secoli.

    4. STORIA DELL'ARTE

      Lungo i secoli la penisola istriana e la costa dalmata hanno accolto soluzioni artistiche e architettoniche provenienti sia dal Mediterraneo orientale, sia da ogni parte dell'Europa centrale.

      Basti pensare alla cultura figurativa bizantina, testimoniata dai mosaici presenti nelle chiese e cattedrali altomedievali lungo tutto l'arco dell'Adriatico settentrionale (da Parenzo, a Trieste, a Grado, a Torcello, a Venezia e a Ravenna), all'architettura rurale con la presenza delle absidi inscritte nel muro di fondo dei piccoli edifici ecclesiastici, alle “danze macabre”, che si presentano in Istria come estrema propaggine di un genere diffusissimo più a Nord.

      L'architettura veneziana caratterizza ancor oggi tutte le città costiere dell'Adriatico orientale, da Capodistria, Isola e Pirano (oggi territorio sloveno), a Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola, e fino alle isole dalmate e poi le città di Zara, Sebenico, Traù, Spalato, oggi appartenenti alla Croazia.

    5. MUSICA

      Anche nella disciplina musicale è da evidenziare la presenza di diversi personaggi, nati sulle sponde dell'Adriatico orientale, di livello nazionale ed europeo. Primo fra tutti è il violinista Giuseppe Tartini di Pirano, ma antecedente, all'inizio dell'età moderna, il compositore Andrea Antico da Montona, tra i primi stampatori di musica nella prima metà del 1500. In seguito, sono da citare almeno l'operista Antonio Smareglia, nato a Pola, il compositore e pianista Luigi Dallapiccola, nato a Pisino, e il contemporaneo dignanese Luigi Donorà, compositore e attento studioso della musica popolare istriana e il rovignese esule

      Piero Soffici, direttore d’orchestra, musicista e compositore, nonché autore di canzoni contemporanee, nel solco della tipica tradizione canora rovignese...

      Da non dimenticare la ballerina classica Carlotta Grisi, ottocentesca étoile della Scala, nata a Visinada, che per prima ballò sulle punte.


    6. STORIA

      L'insegnamento della disciplina storica è un capitolo a sé, in quanto la Frontiera Adriatica costituisce un laboratorio in cui sperimentare le operazioni fondamentali di ogni approccio storico e cioè: periodizzazione, contestualizzazione, problematizzazione e comparazione, sulle quali ora conviene soffermarsi, anche per mettere in condizione gli insegnanti di evitare una serie di equivoci nei quali capita spesso di incappare se non si attua un’adeguata formazione.

      1. Periodizzazione

        È sempre convenzionale ma non arbitraria. Si fonda sull’individuazione di rilevanze, che possono anche cambiare a seconda della prospettiva di analisi. A livello macro, di lungo periodo, si tratta di cogliere le grandi scansioni della storia dell’Adriatico orientale. Quella che segue è un’ipotesi che trova largo fondamento nelle fonti e nella letteratura.

        La Romanizzazione, che comporta l’avvento della civiltà urbana (civilis e urbanus vs villanus e silvaticus); l’avvio della trasformazione artificiale del paesaggio (disboscamenti e ingegneria idraulica); la rivoluzione dei trasporti (strade romane); l’applicazione di modelli scientifici all’organizzazione del territorio (centuriazione).

        La transizione fra Tardo Antico e Alto Medioevo, che in tutto il Caput Adriae provoca la dicotomia fra aree costiere – in cui si perpetua la civiltà urbana – ed aree interne, dove invece le città scompaiono e si affermano le logiche del potere rurale, prima longobardo, poi franco, poi feudale. Nel contempo, prende forma una koiné adriatica (bizantino/veneziana), in cui il mare svolge un ruolo centrale e unificante (testimonianze nell’arte figurativa e nell’architettura), mentre nell’entroterra avvengono i primi insediamenti slavi.

        Il Pieno Medio Evo, segnato dalla progressiva egemonia di Venezia sui territori già appartenenti al patriarcato di Aquileia, fino all’assorbimento di quasi tutte le aree costiere all’interno dello Stato Veneto, mentre l’entroterra isontino e quello istriano, nonché Trieste la contea di Pisino e Fiume, passano agli Asburgo.

        L’epoca della grande crisi demografica, fra XVI e XVII secolo, che comporta nuovi e massicci afflussi di genti slave promossi dalla Serenissima a fini di ripopolamento.

        La crisi del ruolo di Venezia, parallelo alla crescita di quello di Trieste, che culmina nel crollo della Serenissima e nella sua sostituzione con Trieste nella funzione di centro di riferimento (cosmopolita, ma culturalmente italiano) per l’intera area dell’Adriatico orientale.

        L’epoca della nazionalizzazione, dalla metà del XIX secolo fino a quella del XX secolo (si conclude con le opzioni degli istriani per la cittadinanza italiana).

        L’epoca dell’oscillazione statuale, in cui i territori adriatici pencolano fra Italia e Jugoslavia, fino a che l’ultima stabilizzazione (con il Memorandum di Londra del 1954 e infine

        il Trattato di Osimo 1975) si accompagna alla scomparsa quasi completa della componente italiana dai territori rimasti in Jugoslavia, segnando così la principale frattura storica dall’epoca della romanizzazione.

        Concentrando lo sguardo su periodi più brevi e su temi specifici, è possibile costruire altre periodizzazioni. Alcuni esempi verranno proposti nella sezione Suggerimenti metodologici.

      2. Contestualizzazione

        La piena comprensione di un qualsiasi testo – e tale può venir considerato anche un fenomeno storico – diventa assai ardua qualora quel testo non venga opportunamente inserito nel suo corretto contesto di riferimento. D’altro canto, l’appello al contesto, se condotto senza buonsenso e misura, può trasformarsi in mero pretesto per sfuggire al confronto con le sgradite asperità del testo; in tali casi, più che di contestualizzazione sembra opportuno parlare di strategie di elusione. Un esempio concreto: se nell’ambito di un’unità didattica sulle Foibe la maggior parte del tempo è dedicata ai precedenti di violenza del fascismo di confine e delle truppe italiane in Jugoslavia, questa non va considerata come corretta contestualizzazione, bensì quale mera elusione.

        Ciò premesso, l’esigenza di contestualizzare le singole vicende delle terre adriatiche, e in particolare quelle specificatamente delle Foibe e dell’Esodo, conduce ad individuare una pluralità di contesti fra loro connessi. Solo per fare qualche esempio: quello asburgico multiculturale e multinazionale e al tempo stesso incubatore di movimenti nazionali antagonisti; quello degli “stati per la nazione” impegnati nell’omogeneizzazione nazionale del loro territorio e in particolare delle periferie; quello dei regimi autoritari e totalitari (fascista, nazista e comunista) e delle loro pretese di mobilitazione e controllo della società; quello della rivoluzione sfociata nell’instaurazione dello Stato comunista jugoslavo; quello della guerra totale sul fronte orientale durante il secondo conflitto mondiale; quello della polarità nazismo/comunismo prevalente nell’Europa dell’Est, mentre in quella occidentale – Italia compresa – prevaleva invece quella fascismo/democrazia liberale; quello infine della Guerra fredda. L’esplorazione di ciascuno di tali contesti offre una gran copia di opportunità didattiche e di occasioni per passare da una storia regionale ai grandi temi della storia generale.

        Inoltre, proprio dalla contestualizzazione emerge chiaro uno dei nodi interpretativi fondamentali della storia della Frontiera Adriatica: vale a dire, le vicende di un’area di frontiera – che significa transizione e sovrapposizione – non possono venir adeguatamente comprese applicando le logiche proprie di una sola storia nazionale, qualunque essa sia. Si tratta di una necessità metodologica che si presta a venir trasformata in opportunità didattica, sollecitando gli studenti a non adagiarsi sui criteri analitici più facili e scontati, per applicare invece punti di vista diversi al fine di meglio illuminare l’oggetto degli studi.

      3. Problematizzazione

        L’assunto di partenza è che “fare storia” non significa semplicemente “narrare”, bensì costruire un tessuto di domande e risposte, la cui esposizione assume prevalentemente la forma di un racconto. Senza la formulazione di una serie di interrogativi, il passato rimane

        per noi muto e solo l’articolazione delle domande, la loro trasformazione in ipotesi di ricerca e la loro verifica sulle fonti, consentono il progresso delle conoscenze. Tale approccio risulta di primaria importanza per evitare che gli studenti si formino l’errata impressione che la storia “è andata come doveva andare”, mentre invece ciò che è accaduto è frutto di una rete di scelte aperte, di volta in volta compiute dai soggetti storici per rispondere alle sfide del loro presente.

        Indichiamo di conseguenza alcuni argomenti che si prestano particolarmente alla problematizzazione, anche come antidoto alla banalizzazione, purtroppo diffusa nell’uso pubblico e nella comunicazione sui social media.

        1. Partiamo da una domanda fondamentale per orientarsi nei conflitti della contemporaneità: nell’area frontaliera giuliano-dalmata, chi sono gli italiani e chi sono gli slavi? Per rispondere, bisognerà partire da un’esplorazione preliminare del concetto, tutt’altro che intuitivo, di nazione, ben distinguendo le diverse idee di nazione (volontarista ed etnicista), individuando i ritmi della nazionalizzazione (fase dei pionieri, fase dei patrioti, fase della nazionalizzazione delle masse) e soffermandosi infine sui processi di nazionalizzazione parallela competitiva non guidati dallo Stato nella cornice asburgica, nonché sulla compresenza, in alcuni ambiti e momenti, di identità molteplici. Gli spunti didattici sono qui numerosi, come pure i rispettivi materiali.

        2. Collegato al precedente è il problema di che cosa s’intenda per italianità adriatica. Un excursus di lungo periodo porta a concepirla come la forma storicamente assunta all’epoca della nazionalizzazione da una presenza culturale italica di lunga data, in quanto derivante senza soluzione di continuità dalla romanizzazione, arricchita nel corso dei secoli dai continui scambi con la penisola italica e dai processi di integrazione di apporti diversi, provenienti vuoi dal retroterra immediato, vuoi da un più ampio entroterra centro-europeo, vuoi da altre sponde mediterranee.

          Percorrere tale cammino bimillenario lungo i sentieri dell’italianità adriatica permette di capire con maggior profondità come l’Istria, il Quarnero e la Dalmazia, oggi appartenenti alle repubbliche di Slovenia e Croazia, non siano state affatto in passato mere sedi di insediamenti coloniali veneto/italiani, bensì per la massima parte della loro storia siano vissute e cresciute ben dentro lo spazio culturale italiano che, com’è noto, è costituito da un insieme assai differenziato di peculiarità.

        3. Particolarmente adatta alla tematizzazione risulta l’esplorazione della polarità tra frontiera, territorio dai contorni sfumati, e confine, linea di separazione e in taluni casi barriera fra entità diverse, quando non avverse. Tale operazione consente anche di collegare una storia localizzata come quella delle riviere dell’Adriatico orientale, con la grande storia dell’Europa contemporanea, attraverso almeno due riferimenti piuttosto immediati.

          Il primo è quello della frontiera renana: proprio in relazione all’appartenenza statuale dell’Alsazia-Lorena, infatti, sono stati definiti quei due modelli di concezione della nazione (volontarista francese: “plebiscito di ogni giorno” ed etnicista tedesco: “sangue e terra”) che sarebbero poi stati adottati sulla Frontiera Adriatica rispettivamente dai patrioti italiani e da quelli slavi (sloveni, croati, serbi). Il secondo è quello all’ampia fascia di crisi, di cui fa parte anche la Frontiera Adriatica, che dal Baltico scende fino al Mediterraneo (Adriatico ed Egeo)

          ed al Mar Nero: una vera e propria faglia, questa, che ha generato conflitti ripetuti e sanguinosissimi, che è stata il luogo storico dell’innesco delle grandi guerre europee del XX secolo e che non cessa di movimentare anche la storia degli inizi del secolo XXI.

        4. Terreno ideale per la problematizzazione delle conoscenze storiche è quello della quantificazione delle vittime di fenomeni tragici di grande portata, quali guerre, genocidi, stragi, spostamenti forzati di popolazione. Capita piuttosto spesso, infatti, che le fonti non consentano certezze al riguardo, e di tale impossibilità conviene prendere atto, senza cercare di forzare giudizi storici scarsamente fondati.

        In linea generale, le stime prodotte dai portatori della memoria delle vittime differiscono da quelle degli studiosi indipendenti, ma anche questi ultimi talvolta non concordano affatto tra di loro. Sempre in linea generale, mentre sul piano della pietà sarebbe importante conoscere esattamente la sorte di ogni vittima, lo stabilire un ordine di grandezza in molti casi può risultare sufficiente sul piano dell’interpretazione storica.

      4. Comparazione

      La storia comparata è assai utile, sia sotto il profilo scientifico che su quello didattico, perché consente di capire meglio specificità e somiglianze di fenomeni anche apparentemente distanti. La comparazione consente inoltre di passare facilmente dall’analisi e/o presentazione di un caso locale, alla discussione di processi storici di più ampio respiro.

      La condizione fondamentale per una corretta comparazione consiste nel paragonare fenomeni appartenenti alla medesima “famiglia”. Ad esempio, è proficuo confrontare diversi processi di nazionalizzazione in aree linguisticamente miste come – per restare nell’Impero asburgico – il Litorale e la Galizia; oppure i trattamenti delle minoranze linguistiche fra le due guerre mondiali nella Venezia Giulia, nell’Alsazia-Lorena, in Cecoslovacchia ed in Polonia; oppure l’irredentismo italiano con quello sloveno e croato; oppure stragi come quelle naziste in Polonia e Russia, le fosse di Katyn, le Foibe; oppure sempre le Foibe e gli eccidi del dopoguerra nell’Italia settentrionale ed in Slovenia; oppure l’Esodo dei giuliano- dalmati e quello dei circassi dalla Crimea; oppure sempre l’Esodo dei giuliano-dalmati e l’espulsione dei tedeschi dall’Europa centrale.

      Invece, non hanno alcun senso i paragoni incrociati tra fenomeni in contesti o di natura diversa. Così, non conduce a nulla paragonare fra loro i genocidi, le stragi e le migrazioni forzate.

    7. SPUNTI OPERATIVI E SUGGERIMENTI METODOLOGICI

      Didattica di prossimità

      La diffusione su larga parte della Penisola di strutture per l’accoglienza degli esuli giuliano-dalmati (di solito prima CRP – Centri Raccolta Profughi – poi quartieri cittadini) consente di progettare attività didattiche che muovano dal territorio, in cui ci sono ancora parecchie tracce della loro esistenza.

      Inoltre, la presenza abbastanza capillare nel Paese di associazioni di profughi offre una certa facilità di accesso alle fonti della memoria, anche in forma di raccolte locali, capaci di stimolare adeguatamente l’interesse degli allievi di tutti i cicli di istruzione. Soprattutto nei

      livelli scolastici superiori è importante che l’accostamento, sempre rispettoso, alla memoria dolente, non rimanga passivo ma sia di stimolo alla problematizzazione ed al confronto con altre fonti e con la storiografia.

      Storia regressiva

      Purtroppo, l’attualità offre una gran messe di spunti che, adeguatamente sviluppati, possono condurre ad affrontare i grandi nodi della storia della Frontiera Adriatica, specie di epoca contemporanea. È questo il caso delle odissee dei richiedenti asilo, in fuga da persecuzioni nazionali, politiche, religiose e approdati spesso in un contesto non pronto ad accoglierli, o indifferente, o persino ostile.

      È questo il caso di tutte le guerre di frontiera che obbligano a tematizzare nodi classici anche della storia adriatica, come le diverse interpretazioni e modalità di costruzione delle identità nazionali, il trattamento delle minoranze, il collegamento fra irredentismi e politiche di potenza delle madrepatrie esterne.

      Simulazioni storiche

      La metodica dei giochi di ruolo appare particolarmente adatta a favorire negli allievi la problematizzazione dei momenti di svolta attraverso la partecipazione diretta, emotivamente coinvolgente, alla ricostruzione degli eventi. In tali casi, l’azione didattica mira ad un duplice obiettivo: 1. ricostruzione puntuale del contesto generale, nonché delle caratteristiche e finalità di quanti si trovavano a prendere decisioni, a tutti i livelli; 2. assunzione di responsabilità personale nel processo decisionale, essenziale per comprendere l’importanza delle scelte compiute, senza che il loro esito fosse scontato.

      Ecco alcuni esempi oggetto già di sperimentazioni: le discussioni sulla questione adriatica alla Conferenza della pace di Parigi nel 1919; la decisione del CLN giuliano e di UO di lanciare due distinte insurrezioni contro i tedeschi a Trieste il 30 aprile 1945; la scelta di una famiglia istriana di prendere la via dell’esilio.

      Odonomastica

      Si può affermare con buona approssimazione che ogni città italiana conserva memoria delle vicende del confine orientale nei nomi di quartieri, vie, piazze... Sarà opportuno dunque andare alla ricerca delle zone delle proprie città in cui compaiono nomi di luoghi legati ai territori istriano-dalmati per indagare il quando, il come e il perché siano stati assegnati quei determinati nomi (per es. era quella la zona in cui vi erano campi profughi, oppure era il quartiere dove vennero assegnati terre e case ai profughi, etc.), andando eventualmente anche a ricercare tali informazioni negli archivi comunali oppure tramite interviste ad esuli ancora viventi o a loro discendenti.

      Da questa attività si può partire anche per progettare una ricerca sull’etimologia dei nomi di città o di paesi istriano-dalmati, per scoprirne il legame con le tradizioni storico- economiche e/o con le popolazioni del passato.

      Carte geo-storiche

      Le carte geografiche scolastiche spesso accantonate nei sottoscala delle scuole possono essere utili per studiare i diversi periodi storici legati alle vicende istriano-dalmate, recuperando visivamente la memoria delle diverse fasi vissute dai territori dell’Alto Adriatico. In particolar modo ci si potrà poi soffermare sugli anni ‘40 e sull’evoluzione territoriale che caratterizza le fasi legate a tre differenti momenti: quello dei mesi di maggio-giugno 1945 con l’occupazione di Trieste, quello immediatamente successivo al Trattato di Parigi del 1947 e quello relativo alla restituzione di Trieste all’Italia nel 1954 (confermata poi dal Trattato di Osimo del 1975).

      Cinema e Teatro

      L’approccio al tema del Ricordo attraverso la didattica del linguaggio cinematografico e audiovisivo può essere molto utile. Sono numerosi i film realizzati nel corso degli anni ed ancora disponibili.

      Si citano, ad esempio La Città dolente (1949) di Mario Bonnard, che ha affrontato l’esodo di Pola; Cuori senza frontiere (1950) di Luigi Zampa, che trae ispirazione dalla divisione in due settori del cimitero di Gorizia, in seguito alla risoluzione ONU del 9 agosto 1947 e si propone di denunciare l'assurdità della ridefinizione dei confini orientali; i film di Franco Giraldi, che costituiscono una trilogia unica sul tema: La rosa rossa, da un romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini, Un anno di scuola (1977), dal racconto omonimo di Giani Stuparich, e infine La frontiera (1996) tratto da un libro di Franco Vegliani. Tre film, questi di Giraldi, collegati tra loro dal tema della frontiera, della sua frontiera, relativa al confine orientale che ha il nucleo centrale a Trieste e poi si dipana verso l’Istria e la Dalmazia. Una trilogia dal sapore decisamente letterario, visto che i tre film sono tutti tratti da opere di scrittori giuliani.

      Non tutti i lavori più recenti sono adatti alla visione dei giovani, facilmente e acriticamente colpiti dagli aspetti più emozionali delle pellicole. Utili indirizzi, a questo proposito, si trovano nei contributi fondamentali di Alessandro Cuk.

      Anche il linguaggio teatrale si presta ad affrontare il tema del Ricordo. Simone Cristicchi, con Magazzino 18 (2013) ha contribuito in notevole misura alla conoscenza diffusa delle vicende del secondo dopoguerra nella Venezia Giulia. È seguito Esodo (2018), un racconto documentato e coinvolgente del destino di migliaia di istriani, fiumani e dalmati.

      Personaggi

      La ricerca e lo studio di importanti personaggi istriani, fiumani e dalmati si rivela molto stimolante per gli allievi di entrambi i cicli scolastici. Si trovano interessanti spunti tra le pagine dei concorsi annuali proposti dal Gruppo di Lavoro Ministero dell'Istruzione – Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati in www.scuolaeconfineorientale.it

  3. PARTE TERZA: IL PROFILO STORICO

    (le note si riferiscono alla cartografia storica reperibile sul sito www.scuolaeconfineorientale.it)


    INTRODUZIONE

    Con la Legge 30 marzo 2004 n. 92, “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del Ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

    La data del 10 febbraio è stata scelta per ricordare il giorno in cui a Parigi, nel 1947, venne parafatto il Trattato di pace che impose la cessione di buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito, cessione che a sua volta comportò l’abbandono di numerose città della sponda orientale dell’Adriatico da parte della popolazione che vi abitava

    Le province di Pola, Fiume e Zara e parte delle province di Gorizia e Trieste passarono sotto sovranità jugoslava, mentre rimase in sospeso la questione della sorte finale del Territorio Libero di Trieste (TLT), risolta in seguito con il Trattato di Osimo del 1975.

    L’istituzione nel 2004 del Giorno del Ricordo ha così permesso di riportare alla luce alcune pagine dimenticate della storia italiana e le vicende del confine orientale d’Italia nel corso della Seconda guerra mondiale e, più in generale, nel suo più ampio contesto storico, sono tornate alla ribalta dell’opinione pubblica nazionale.

    La Venezia Giulia e la Dalmazia, terre di frontiera e di incontro tra popoli e culture diverse, sono state oggetto di notevoli eventi drammatici che hanno cambiato in meno di cento anni l’immagine e l’essenza di questi territori, con diversi cambi di sovranità e numerosi spostamenti delle linee di confine che hanno provocato traumi e lacerazioni in buon parte della popolazione interessata. Quello che molti autori hanno definito “il confine mobile” è stato senz’altro uno degli aspetti più appariscenti che hanno interessato la carta geografica di quest’area, dove le lingue e culture di ceppo latino, tedesco, slavo e ungherese si sono intrecciate in una matassa di rapporti che almeno dal 1848 in poi ha provocato anche, ma non solo, scontri politici e militari.

    1. LA SITUAZIONE GEOPOLITICA ATTUALE

      L’attuale situazione geopolitica della Venezia Giulia, di Fiume e della Dalmazia deriva dalla dissoluzione conflittuale della Federazione socialista di Jugoslavia, avvenuta gradualmente a partire dal 1991, con la conseguente nascita delle nuove Repubbliche di Slovenia e di Croazia, le quali si dichiararono Stati sovrani ed indipendenti il 26 giugno 1991, ma ottennero il riconoscimento della comunità internazionale solo l’anno successivo. L’Italia riconobbe ufficialmente le due nuove Repubbliche il 15 gennaio 1992 – Figura 0).

      La maggior parte dei territori ex italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia appartiene oggi alla Croazia, mentre solo una piccola parte dell’Istria settentrionale è sotto la sovranità slovena.

      La nascita dei due nuovi Paesi ha perciò portato alla creazione di un nuovo confine in Istria, dividendo in due distinti tronconi un territorio che ha avuto per secoli una storia comune.

    2. L’EPOCA ROMANA

      I territori situati intorno alla fascia costiera dell’Adriatico settentrionale ed orientale iniziarono ad essere abitati in maniera stanziale diverse migliaia di anni prima di Cristo. La posizione geografica dell’area altoadriatica, a cavallo tra l’Italia e la penisola balcanica, rappresentò un punto d’incontro tra genti e culture diverse che nel corso dei secoli si sono stratificate sul territorio. La presenza, in epoca preromana, di popolazioni Paleovenete, nonché degli Istri, dei Giapidi, dei Celti, degli Illiri e dei Liburni contribuì a determinare la peculiarità della zona.

      Roma si affacciò gradualmente nell’Adriatico settentrionale ed orientale verso il terzo secolo a.C., con i primi contatti con le popolazioni locali degli Istri e dei Liburni. Nel 221 a.C. una prima spedizione militare romana giunse in Istria e nei decenni successivi, con altre campagne di guerra (le più importanti nel 178-177 a.C.), la conquista dell’intera regione venne completata.

      La fondazione di Aquileia (181 a.C.) e delle successive colonie di Tergeste (Trieste) e di Pietas Julia (Pola) posero le basi per la profonda romanizzazione dell’intera Italia nord orientale, che ai tempi di Augusto venne nominata “Decima Regio Venetia et Histria” – Figura 1).

      La Dalmazia divenne provincia romana a pieno titolo dal 33 a.C.

      I traffici ed i commerci tra l’Istria e le altre terre romane divennero via via fiorenti e ben presto gli abitanti della costa settentrionale ed orientale dell’Adriatico assorbirono gli usi, le consuetudini, i culti e la lingua di Roma.

      Notevoli tracce architettoniche della presenza romana sono visibili ancora oggi in Istria, come l’Arena, il Tempio di Augusto, Porta Gemina e l’Arco dei Sergi a Pola, l’Arco Romano a Fiume e in Dalmazia con il Foro di Zara, con le imponenti rovine di Salona ed il Palazzo di Diocleziano a Spalato.

    3. L’EPOCA MEDIEVALE E LA PRIMA FASE DELLA SERENISSIMA

      Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C), l’Istria finì, come gran parte dell’Italia, sotto i Goti di Teodorico. Essa fu poi bizantina dal 538 al 778, quando subentrarono i Franchi di Carlo Magno – Figura 2 e Figura 3.)

      Nel periodo successivo la penisola istriana si configurò come un’area di scambio e di incontro tra il mondo mediterraneo e quello alpino e centroeuropeo.

      Fra il nono e decimo secolo dopo Cristo il nascente stato veneziano iniziò a far sentire la sua influenza sulle coste orientali dell’Adriatico. La potenza di Venezia fu prevalentemente commerciale e le coste dell’Istria e della Dalmazia divennero ben presto indispensabili per i suoi traffici mercantili verso il Levante. Parallelamente allo sviluppo dei commerci, sorse il problema di difenderli dalle scorrerie dei pirati saraceni e narentani. Venezia estese gradualmente il suo dominio alle principali località dell’Adriatico Orientale e dell’interno dell’Istria. Molte cittadine istriane, che nel tempo si erano costituite in Comuni, dovettero perciò dapprima confrontarsi politicamente con il crescente potere di Venezia (che diventò dominante dopo l’anno 1000 con la campagna navale del doge Pietro Orseolo II) e con le

      varie casate germaniche feudatarie dell’Impero. Diversi Comuni dell’Istria furono obbligati ad un vero vincolo di vassallaggio verso Venezia (come Capodistria nel 932); poi, successivamente, prestarono giuramento di fidelitas verso la Serenissima, il cui potere andò via via sostituendo quello dei patriarchi di Aquileia – Figura 4).

      Fiume, durante il Medioevo, fu un piccolo borgo marittimo posto ai limiti del feudo e poi capitanato di Castua, piccola signoria acquisita dagli Asburgo nella seconda metà del Quattrocento (1466). La città si sviluppò, nei secoli successivi, acquisendo una crescente importanza commerciale.

      La Dalmazia subì l’invasione slava tra i secoli VI e VII dopo Cristo, la presenza romanza si mantenne solo sulle città delle coste e sulle isole dove ci fu una certa continuità politica bizantina fino al XII secolo. Le città distrutte furono ricostruite in luoghi più sicuri. Così fu per Salona, la seconda città dell’Adriatico, distrutta nel 614 dagli Avari, la cui popolazione in fuga diede vita a Spalato nel vicino palazzo di Diocleziano.

      Attorno all’anno Mille anche i Comuni dalmati si svilupparono come avveniva nella penisola italiana, le cui dinamiche politiche interessarono anche la riva orientale dell’Adriatico, dal momento che il mare univa le due sponde in unico spazio culturale ed economico. Per tutelare la propria autonomia, si destreggiarono tra la Repubblica di Venezia e il Regno di Ungheria-Croazia (unitosi nel 1102). Nel 1202 i veneziani imposero la loro sovranità su Zara e poi sulle altre principali città dalmate, rinforzando le proprie rotte commerciali verso Oriente.

      Tra il tredicesimo e quattordicesimo secolo d.C. Venezia s’installò saldamente in buona parte dell’Istria che inglobò nel suo dominio, estendendolo dalla fascia costiera ad alcuni parti dell’entroterra. L’antagonismo tra i patriarchi di Aquileia e la Serenissima si risolse, nel tempo, sempre più a favore di quest’ultima e la dedizione di Parenzo nel 1267 sancì l’ulteriore penetrazione politica e militare di Venezia in Istria. L’esempio di Parenzo venne seguito da Umago (1269), Cittanova (1270), Montona (1278), Pirano e Rovigno (1283) – Figura 4-bis). Con l’accordo del 1307 i patriarchi riconobbero la sovranità di Venezia su buona parte della costa istriana, che si estese poi a Pola (ove nel 1331 furono rovesciati i Castropola) ed al territorio contermine (compresa Dignano, Valle). In tutti questi Comuni la Serenissima assunse il potere ed amministrò il territorio nominando direttamente il Podestà, massima figura del governo locale, scegliendolo tra gli esponenti delle famiglie nobili veneziane). Per evitare il dominio veneziano, nel 1382 Trieste preferì invece dedicarsi ai duchi d’Austria, della dinastia degli Asburgo, che concedevano al comune maggiore autonomia. Con l’ascesa degli Asburgo alla corona del Sacro Romano Impero, Trieste divenne città imperiale. Nel 1374 gli Asburgo presero possesso anche della Contea di Pisino, unendola al Ducato di Carniola.

      Se in quegli anni il dominio di Venezia andò progressivamente aumentando anche verso l’interno dell’Istria, in Dalmazia invece la Serenissima dovette cedere, dopo la sconfitta subita a Nervesa da parte della coalizione antiveneziana con a capo il Re ungherese Luigi I, la propria sovranità all’Ungheria e Croazia, sotto corona angioina (pace di Zara del 1358).

      Successivamente, tra il 1409 ed il 1452, i veneziani riuscirono però a riprendere possesso in maniera stabile di quasi tutta la costa dalmata, ad eccezione della Repubblica

      di Ragusa (attuale Dubrovnik) che, dopo un periodo in cui fu sotto il dominio di Venezia (dal 1205 al 1358), riuscì a rimanere un’entità indipendente per tutti i secoli successivi, fino al 1808, sviluppando intensi rapporti commerciali in tutta l’area mediterranea e anche, poi, nelle Americhe grazie all’imponente sviluppo della propria flotta mercantile. A Ragusa, nel corso del XVI e oltre, accanto a una copiosa letteratura in lingua italiana sorse anche una notevole letteratura in lingua croata.

    4. L’EPOCA VENEZIANA

      Nella prima metà del Quattrocento in Istria la situazione politica si stabilizzò: la caduta definitiva, negli anni 1420-1421, del potere temporale del patriarcato di Aquileia, permise a Venezia di estendere ancora di più il proprio dominio, con la dedizione delle cittadine di Albona, Muggia, Fianona, Portole e Pinguente. La penisola istriana si trovò pertanto, da quell’epoca, ad essere suddivisa tra la Serenissima (l’intera fascia costiera da Muggia a Fianona e la parte interna occidentale) e gli arciduchi d’Austria (la parte centro-orientale della regione). Agli Asburgo nel 1466 passò anche Fiume, già appartenente a diverse dinastie feudali germaniche. Gorizia (dallo sloveno Gorica, che significa “Montagnola”), fondata agli inizi del secondo millennio, appartenne dapprima a feudatari tedeschi per passare anch’essa agli Asburgo nel 1500, all’estinguersi della casata dei Lurngau, signori anche della contea di Pisino, nel centro dell’Istria – Figura 5).

      Anche in Dalmazia il potere di Venezia si rinforzò e numerosi furono gli atti di dedizione delle città della costa (Sebenico, Cattaro, Traù, Spalato, Budua) e delle isole (dapprima Curzola e Lesina e poi pure Veglia). Nella seconda metà del quindicesimo secolo gli equilibri politici mutarono velocemente dopo la conquista nel 1453 di Costantinopoli da parte dei turchi e la fine dell’impero bizantino. Alla controparte ungherese-croata subentrò quella ottomana e nel 1463 scoppiò la prima guerra tra veneziani e turchi.

      Scorrerie, incendi, saccheggi e devastazioni degli ottomani caratterizzarono i decenni successivi e, nel corso del tempo, soprattutto le città dalmate (come Zara, Sebenico, Traù, Lesina e Curzola) vennero fortificate dai migliori architetti del Rinascimento e rappresentarono uno dei principali antemurali della Cristianità contro il dilagante pericolo turco. Nei suoi possedimenti, soprattutto nelle zone rurali incolte dell’Istria e della Dalmazia, Venezia accolse decine di migliaia di persone di origine slava, greca o morlacca che fuggivano dalle persecuzioni ottomane perpetrate nell’intera area balcanica. Tutti questi profughi, che si lasciavano alle spalle situazioni disperate, trovarono sistemazione in gran parte nelle campagne spopolate a causa delle guerre e delle pestilenze (specialmente in Istria), mentre in Dalmazia si impegnarono pure, in cambio della protezione loro accordata dalla Serenissima, a difenderne le frontiere. Spesso furono proprio le milizie degli Schiavoni (provenienti dall’interno dell’attuale Croazia e soprattutto dalle montagne della Dalmazia) a risultare le truppe più fidate e combattive nella lunga battaglia di Venezia a difesa della Cristianità. Anche l’apporto delle cittadine della costa dell’Adriatico orientale fu spesso decisivo nelle guerre contro gli Ottomani e i marinai delle Bocche di Cattaro si distinsero per la loro fedeltà al Gonfalone di San Marco.

      Alla vittoriosa battaglia di Lepanto contro la flotta turca (7 ottobre 1571) presero parte numerose galee istriane e dalmate, che furono in prima linea anche nella difesa del traffico

      mercantile e delle popolazioni rivierasche continuamente vessate non solo dal pericolo rappresentato dalle frequenti incursioni ottomane ma pure dalle scorrerie dei pirati uscocchi.

      Il lungo antagonismo veneziano-ottomano continuò, tra periodi di guerra e di pace, anche nel Seicento e nel Settecento, durante il quale Venezia acquisì pure l’interno della Dalmazia. Dopo tre guerre combattute tra il 1645 ed il 1718, la Serenissima raggiunse, a seguito della Pace di Passarowitz (1718), la sua massima espansione territoriale nell’area dalmata portando i suoi confini, segnati dalla “Linea Mocenigo”, fino al displuvio delle Alpi Dinariche.

      Nel corso del Settecento si registrò un forte incremento demografico sia nella regione istriana che in quella dalmata dovuto, per quest’ultima, sia alle popolazioni dei nuovi territori acquisiti sia alla continua immigrazione di elementi provenienti dalle aree soggette alla dominazione turca.

      Ancora maggiore fu la crescita di Trieste, grazie ai provvedimenti degli imperatori asburgici Carlo VI e Maria Teresa, che costituirono la città in portofranco, attribuendole numerosi privilegi commerciali, svolgendo una politica di tolleranza religiosa che attirò imprenditori ebrei, greci, serbi e di varie parti d’Europa, e edificando una nuova città accanto a quella medievale. In tale modo, nell’arco di un secolo Trieste riuscì quasi a soppiantare Venezia come terminale dei traffici adriatici. Simile, seppur su scala minore fu anche il destino di Fiume, anch’essa asburgica e dal 1779 Corpus Separatum del Regno di Ungheria.

      La Serenissima governò l’Istria costiera e la Dalmazia fino al Trattato di Campoformido (1797), che segnò la caduta della Repubblica – Figura 6). Lo Stato veneto cessò di esistere e venne assegnato all’Austria. I segni della secolare presenza veneziana sono ancora oggi evidenti in tutto l’Arco Adriatico e il Leone di San Marco è ancora visibile in molte località istriane e dalmate. Il tracollo di Venezia segnò la definitiva affermazione di Trieste, che divenne il nuovo punto di riferimento, italiano di lingua e cultura, dell’area adriatica orientale.

    5. IL PERIODO AUSTROUNGARICO (1797-1918)

      Dopo il Trattato di Campoformio (siglato il 17 ottobre 1797 tra Napoleone e gli Asburgo), che segnò la fine della secolare presenza veneziana in Istria e in Dalmazia, iniziò l’amministrazione austriaca, che durò dal 1797 all’ottobre 1918, con una breve parentesi napoleonica tra il 1806 ed il 1813 – Figura 7 e Figura 7bis).

      L’arrivo degli austriaci in Istria, peraltro già presenti nella parte più interna della penisola, portò diverse trasformazioni sociali ed amministrative. Il centro di gravità della regione si spostò da Venezia a Trieste, che ne ereditò tutte le funzioni. Dopo la battaglia di Austerlitz, nell’ambito della pace di Presburgo (1805), il Veneto, l’Istria e la Dalmazia passarono dal dominio asburgico a quello di Napoleone, imperatore dei Francesi. Nel marzo 1806 Napoleone aggregò ufficialmente l’Istria e la Dalmazia al Regno d’Italia. Dopo alterne vicende, i francesi rimasero sulla costa orientale dell’Adriatico sino al 1813, quando gli austriaci ripresero il controllo della penisola istriana e della costa dalmata – Figura 8).

      La nuova amministrazione asburgica portò un’efficiente burocrazia e un senso dello Stato che si innestò sul substrato civile e culturale lasciato dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Verso la metà del secolo diciannovesimo divenne tuttavia irreversibile la presa di

      coscienza nazionale di strati sempre più ampi delle popolazioni italiane, slovene e croate residenti all’interno dell’impero asburgico, che nel 1867 si trasformò nella duplice monarchia austro-ungarica.

      I fatti rivoluzionari del 1848-1849, il crescente sentimento nazionale dei popoli soggetti alla dominazione asburgica, l’occupazione croata di Fiume, la nascita del Regno d’Italia (1861), la terza guerra d’indipendenza ed il passaggio del Veneto all’Italia (1866), la mutata politica di Vienna verso le diverse nazionalità, furono alcuni dei fattori che contribuirono a creare tensioni tra le comunità nazionali italiane, croate e slovene, che in precedenza erano sempre vissute in un clima di tranquilla convivenza – Figura 9 e Figura 9bis). Dopo il Consiglio dei Ministri del 12 novembre 1866, il Governo austriaco prese diverse misure atte a favorire l’elemento slavo, ritenuto più fedele, rispetto a quello italiano, ritenuto infido e potenzialmente vicino alla causa irredentista. La lingua slovena e quella croata velocemente sostituirono quella italiana in molti settori della vita pubblica. Soprattutto in Dalmazia in pochi anni diversi Comuni passarono dall’amministrazione italiana a quella croata e vennero aperte decine di scuole che avevano il croato come lingua d’insegnamento. Ciò nonostante, nella seconda metà dell’Ottocento, le lotte nazionali riguardarono soprattutto le élite politiche e culturali italiane e slave mentre, in buona parte della popolazione istriana e dalmata, il rispetto dell’autorità costituita e dello Stato, il culto della giustizia, l’attaccamento alle tradizioni locali e religiose attutirono il livello dello scontro che stava iniziando a delinearsi

      Diverse furono le traiettorie di Trieste e Fiume. Trieste, che nell’Impero godeva di una situazione decisamente privilegiata, sviluppò un forte identità cosmopolita, anche se prevalentemente di lingua e cultura italiana. Partecipò quindi solo marginalmente alla temperie risorgimentale e la sua fedeltà agli Asburgo fu compensata con un ulteriore rafforzamento della sua autonomia. Solo a partire dall’ultimo ventennio dell’800 la forte crescita demografica e sociale della componente slovena - innescata dal decollo industriale che favoriva l’immigrazione dal circondario e dalla Carniola, unita all’azione del movimento nazionale sloveno che inceppava i tradizionali processi d’integrazione linguistica e culturale, e che sostenuta dalle autorità asburgiche, sempre più diffidenti nei confronti della componente italiana - favorì una mobilitazione di massa, principalmente della piccola e media borghesia urbana italiana, attorno alla priorità della “difesa nazionale”. All’interno del movimento nazionale italiano, avverso a quello sloveno, gli elementi più giovani si spinsero fino all’ “irredentismo”, cioè si batterono per il distacco della città dalla compagine asburgica e per la sua annessione alla madrepatria, cioè il Regno d’Italia.

      Fermenti irredentisti si manifestarono a cavaliere fra ‘800 e ‘900 anche a Gorizia. Fiume, di lingua e cultura italiana maggioritaria e permeata di un forte municipalismo, durante il Risorgimento sostenne politicamente la causa ungherese perdente di Lajos Kossuth, dopo il 1848 subì per vent’anni l’occupazione dei croati rimasti fedeli a Vienna in funzione antimagiara e nel 1867, dopo la creazione della Duplice monarchia austro-ungarica, recuperò il suo status di Corpus Separatum direttamente dipendente da Budapest senza passare per Zagabria, con grande soddisfazione sia dei fiumani che del governo ungherese, il quale sino alla fine del secolo ne rispettò la larghissima autonomia. Quando poi Budapest cominciò a ridiscutere i privilegi municipali, i fiumani reagirono con la formazione di un

      movimento autonomista di massa; alcuni elementi più giovani si spostarono infine verso l’irredentismo.

    6. LA PRIMA GUERRA MONDIALE (1914-1918)

      Verso la fine dell’Ottocento il sentimento di appartenenza nazionale raggiunse strati più ampi della popolazione di lingua italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, con la nascita anche di associazioni a carattere culturale e patriottico (come la Lega Nazionale, fondata nel 1891). Le aspirazioni e le rivendicazioni dei giuliani e dei dalmati di lingua italiana si trovavano però spesso in contrapposizione con identiche e parallele istanze di matrice slava.

      Anche nei primi anni del Novecento però, le popolazioni slovene e croate furono considerate dalle autorità austroungariche più leali di quelle italiane, dato che a loro mancava un altro Stato di riferimento cui volgere lo sguardo. Come già avvenuto negli ultimi decenni dell’Ottocento, diversi provvedimenti emanati da Vienna in campo scolastico o amministrativo o politico furono interpretati come vessatori nei confronti dell’etnia italiana, la cui causa aveva nel frattempo conquistato la crescente attenzione della opinione pubblica del Regno d’Italia. Intellettuali, borghesi e ceti popolari della Penisola, ancora permeati da una forte pulsione risorgimentale, si appassionarono alla “Questione Adriatica”. L’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina (1908), la mancata concessione all’apertura di una Facoltà universitaria italiana a Trieste, l’espulsione di circa 35.000 cittadini del Regno d’Italia che risiedevano nella Venezia Giulia (tra il 1903 ed il 1913), le guerre balcaniche (1912-1913) ed il pericolo del declino dell’identità italiana presente nell’Impero Austroungarico furono temi che infiammarono l’opinione pubblica italiana. La mobilitazione in difesa della causa italiana ebbe una grande accelerazione con lo scoppio del conflitto austro-serbo (28 luglio 1914) e l’irredentismo si trasformò in interventismo.

      Lo scoppio della Prima guerra mondiale diede perciò l’occasione all’Italia per entrare nel conflitto già iniziato, dalla parte avversa alla monarchia austroungarica, con lo scopo di poter completare il disegno di risorgimento nazionale. Con il Patto di Londra (26 aprile 1915) le potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) promisero all’Italia che se fosse intervenuta militarmente al loro fianco avrebbe avuto garantita, a guerra finita, l’annessione del Trentino, dell’Alto Adige, di Trieste, della Contea di Gorizia e di Gradisca, dell’intera Istria con le intere isole di Cherso e Lussino, di una parte della Dalmazia (con Zara, Sebenico e le isole di Lissa, Lesina e Curzola), oltre ad alcuni altri territori e possedimenti – Figura 10).

      L’Italia entrò in guerra il 24 maggio 1915 e, dopo tre anni di duro e sanguinoso conflitto, riuscì a contribuire alla vittoria delle Potenze dell’Intesa.

      Tra le centinaia di migliaia di morti caduti al fronte, non mancarono diversi di quei volontari irredenti giuliani che avevano disertato dalle fila austriache per raggiungere le linee italiane. Tra tanti nomi, quelli dei triestini Scipio Slataper, Ruggero Timeus, Carlo Stuparich, Guido Brunner, Spiro Tipaldo Xydias, di Nazario Sauro (da Capodistria), di Fabio Filzi (da Pisino d’Istria) e di Francesco Rismondo (da Spalato), Mario Angheben (Fiume) caduti sul campo o catturati dagli austroungarici e condannati a morte per diserzione, sono stati spesso ricordati come simboli della dedizione dei giuliani e dei dalmati alla lotta nazionale italiana. La guerra si concluse sul fronte italiano con l’Armistizio di Villa Giusti del 3 novembre 1918,

      sottoscritto dai delegati italiani ed austroungarici. Conseguentemente l’esercito austroungarico si ritirò e le truppe italiane occuparono tutti i territori promessi dal patto di Londra.

    7. LA VENEZIA GIULIA ALLA FINE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

      Le trattative per la delimitazione dei nuovi confini d’Italia dopo la fine del primo conflitto mondiale si svolsero a Versailles a partire dal gennaio del 1919. La soluzione di quella che fu definita la “Questione adriatica” non fu facile perché molto diverse erano le aspettative delle varie Potenze presenti alla Conferenza di pace – Figura 11 e Figura 11bis).

      L’Italia chiese sin da subito il rispetto di quanto promesso dal Patto di Londra e, in aggiunta, pure la città di Fiume (che non era compresa nel Patto), rivendicata in base al diritto di autodeterminazione dei popoli, in quanto una rilevazione statistica del dicembre 1918 indicava una netta maggioranza di persone di nazionalità italiana.

      L’atteggiamento delle altre Potenze fu di netto rifiuto per quest’ultima richiesta italiana e, dopo mesi di discussioni e di controproposte, si giunse a trattative dirette tra il Regno d’Italia ed il nuovo soggetto internazionale che era nato ad oriente dopo la dissoluzione dell’impero austroungarico, e cioè il nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (la futura Jugoslavia).

      In un clima politico di crescenti tensioni tra i sostenitori della causa italiana e della causa jugoslava, il 12 settembre 1919 Gabriele d’Annunzio entrò a Fiume con circa 400 volontari al suo seguito che nel giro di un mese diventarono 2.500. In seguito, proclamò l’annessione della città all’Italia e la Reggenza del Carnaro. Durante il luglio del 1920 numerosi fatti di sangue ai danni delle fazioni contrapposte esasperarono ulteriormente gli animi. In particolare, a Spalato rimasero uccisi due marinai italiani e l’incidente offrì l’occasione ai fascisti triestini per distruggere i “Narodni dom” (sedi delle organizzazioni slave) di Trieste e di Pola. Da quel momento il “fascismo di confine” imperversò in tutta l’Istria ai danni di sloveni, croati, socialisti e popolari.

      Il 12 novembre 1920, i Governi Italiano e Jugoslavo firmarono a Rapallo un Trattato con cui i confini tra i due Paesi venivano fissati in maniera consensuale: l’Italia otteneva la quasi totalità della Venezia Giulia (ma non Fiume), mentre rinunciava a quasi tutta la Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta). La città di Fiume divenne Stato Libero e il Governo Italiano dovette, in rispetto al Trattato, intervenire militarmente contro i legionari di Gabriele d’Annunzio, che dovettero abbandonare la città dopo una serie di scontri (Natale di sangue) contro le truppe italiane – Figura 12, Figura 12bis, Figura 12ter e Figura 12quater). I successivi buoni rapporti instaurati tra i Governi Italiano e Jugoslavo, unitamente con la difficile situazione politica del nuovo Stato Fiumano (il Governo presieduto da Riccardo Zanella fu rovesciato da elementi fascisti nel marzo 1922), permisero tuttavia nel gennaio 1924 di giungere ad una spartizione di Fiume tra Italia e Jugoslavia. Con l’accordo di Roma, l’Italia si annesse la città di Fiume, mentre il Porto Baros ed una parte dell’entroterra furono assegnati alla Jugoslavia – Figura 13 e Figura 13bis).

    8. GLI ESODI DEL PRIMO DOPOGUERRA

      Gli accordi di Rapallo e di Roma permisero una stabilizzazione dei confini tra il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS), ma le tensioni tra le opposte fazioni nazionali continuarono ancora a lungo. Il ricordo dei tre anni di guerra combattuti da nemici e le lunghe schermaglie per la demarcazione dei confini avevano creato un clima di continua contrapposizione tra gli italiani da una parte e gli sloveni ed i croati dall’altra.

      La situazione si fece molto pesante per gli italiani che vivevano in Dalmazia e che avevano a lungo sperato che il Patto di Londra del 1915 venisse rispettato e che le loro terre fossero annesse all’Italia al termine del conflitto. Nel novembre del 1918 le truppe italiane erano effettivamente giunte non solo nella Venezia Giulia ma anche sulla costa dalmata, sulle isole e in buona parte dell’entroterra rivendicando il rispetto del Patto. Nelle zone non occupate dai militari italiani vi furono però subito incidenti e tafferugli e in poco tempo alcune migliaia di italiani dovettero abbandonare i propri paesi per mettersi in salvo.

      Questa prima ondata di profughi raggiunse, tra il 1919 ed il 1920, in parte Zara ed in parte Trieste, Venezia ed Ancona. Successivamente però, dopo che il Trattato di Rapallo assegnò la sovranità della Dalmazia al Regno SHS e le truppe italiane si ritirarono gradualmente dal territorio dalmata promesso all’Italia dagli accordi di Londra (primavera del 1921), in diverse località scoppiarono nuovi incidenti da parte di nazionalisti serbi e croati ai danni dei dalmati italiani e di quei dalmati slavi che avevano sostenuto la causa italiana. Spaventati dalle angherie e dai linciaggi che avevano subito e che avrebbero potuto subire senza l’ombrello protettivo dei militari, molti dalmati scelsero l’esilio e nei primi mesi del 1921 lasciarono la propria terra, che si svuotò dell’elemento italiano autoctono. In alcune città, come Sebenico e Curzola, l’esodo venne organizzato dal Governo italiano: nel maggio- giugno del 1921 furono inviati dei piroscafi a raccogliere le comunità italiane prima del passaggio delle consegne dalle autorità italiane a quelle slave. Nel giro di qualche anno partirono profughi altri 7.000/8.000 dalmati di madrelingua italiana, con la conseguenza che la presenza italofona in Dalmazia si ridusse ulteriormente, restando maggioritaria solo a Zara, unica città dalmata assegnata all’Italia.

      Nello stesso primo dopoguerra ci fu, parallelamente, un analogo esodo di persone che lasciarono la Venezia Giulia oramai italiana. Migliaia di austriaci, ungheresi, cechi, slovacchi, sloveni e croati, legati alla passata amministrazione austroungarica, partirono con le proprie famiglie nel periodo successivo all’insediamento delle nuove autorità italiane. Più complesso e più lungo nel tempo fu l’esodo di migliaia di sloveni e croati (circa 50.000 fino al 1936, in gran parte sloveni) che partirono dai territori annessi al Regno d’Italia per andare o oltre confine, nel nuovo Regno S.H.S., o oltre oceano, soprattutto in America. Tra gli esuli sloveni e croati rifugiatisi in Jugoslavia, alcuni contribuirono a far nascere e sviluppare i movimenti irredentisti di matrice slava (come il TIGR, l’Orjuna e Borba) tesi a rimettere in discussione i confini e a cercare di annettere Trieste, Gorizia, l’Istria, Fiume e Zara al nuovo Regno jugoslavo. L’Orjuna iniziò fin dal 1921 la sua attività antitaliana e negli anni successivi le varie organizzazioni jugoslaviste compirono numerosi attacchi e attentati all’interno della Venezia Giulia con lo scopo di tenere alta la tensione nei territori da loro rivendicati.

    9. IL PERIODO FASCISTA

      Il nuovo confine orientale d’Italia, fissato dai trattati del 1920 e del 1924, aveva determinato l’esistenza all’interno del Regno di un elevato numero di cittadini di etnia slovena e croata, concentrati i primi soprattutto nelle province di Gorizia e di Trieste, ed i secondi in quelle di Pola, Fiume e Zara.

      L’amministrazione italiana dell’immediato primo dopoguerra evidenziò sin da subito una notevole impreparazione nell’affrontare i problemi specifici della Venezia Giulia e soprattutto la delicata questione della presenza di consistenti nuclei di minoranze linguistiche autoctone. L’avvento del fascismo in Italia portò poi rapidamente ad un peggioramento della situazione degli sloveni e dei croati del confine orientale. In breve tempo il regime fascista varò numerosi provvedimenti tesi alla snazionalizzazione delle minoranze presenti sul territorio italiano, in un clima di profonda intolleranza inasprito dalle misure totalitarie della dittatura.

      Le scuole di lingua slovena e croata vennero italianizzate e furono soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali ed economiche delle due minoranze che erano state invece tollerate subito dopo la fine della Prima guerra mondiale

      Le stesse pesanti limitazioni le subì la minoranza germanofona in Alto Adige (SudTirolo). Va peraltro chiarito che nella medesima epoca la maggior parte dei Paesi europei (Francia, Polonia e Cecoslovacchia e altri) dimostrò scarsissimo rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul proprio territorio, che vennero a lungo vessate ed osteggiate. Come abbiamo in precedenza osservato, la stessa minoranza italiana presente nel nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (rinominato Jugoslavia nel 1929) non ebbe vita facile e negli anni Venti continuò l’esodo di italiani dalle città costiere della Dalmazia che era iniziato dopo il Trattato di Rapallo. Le ritorsioni ai danni delle rispettive minoranze in Italia e in Jugoslavia continuarono, a fasi alterne, anche nei successivi anni Trenta, con numerosi casi di violenza perpetrati ai danni di inermi cittadini. In Italia anche la stampa periodica slovena e croata venne posta fuori legge e le minoranze slovene e croate cessarono di esistere come forze politiche e non poterono in alcun modo essere rappresentate. Tutte queste misure repressive non raggiunsero peraltro i risultati sperati dalle autorità fasciste e le popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia rimasero compattamente insediate nel loro territorio al punto che, secondo un censimento segreto del 1936, il numero degli sloveni e croati presenti in regione non era sostanzialmente diminuito rispetto al 1921. Va infine precisato che il comportamento oppressivo delle autorità fasciste verso le minoranze slave della Venezia Giulia va distinto da quelli che furono, nel periodo considerato, i rapporti intercorrenti tra i singoli cittadini di etnie diverse che, similmente a quanto avvenuto in epoca austriaca, furono in massima parte ispirati a reciproca tolleranza, testimoniata da numerosi matrimoni misti.

    10. LA SECONDA GUERRA MONDIALE SUL CONFINE ORIENTALE

      Con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista e, più in particolare, con l’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse nell’aprile del 1941, i territori del confine orientale d’Italia si trovarono coinvolti direttamente nel conflitto che di lì a poco sarebbe diventato mondiale. L’Italia era scesa in campo già nel giugno del 1940, ma gli echi

      della guerra, che sembrava lontana, avevano toccato per diversi mesi solo marginalmente la popolazione della Venezia Giulia, data la posizione di neutralità che il vicino Stato Jugoslavo aveva mantenuto fino a quel momento.

      Il 6 aprile 1941 le truppe tedesche iniziarono l’attacco alla Jugoslavia, seguite in breve dalle altre forze dell’Asse, soprattutto italiane ed ungheresi.

      L’esercito jugoslavo, attaccato da più fronti, si dissolse rapidamente. Il giorno 10 aprile Ante Pavelić, capo degli “ustascia” (movimento politico croato filofascista), proclamò l’indipendenza della Croazia, con un atto che segnava in modo determinante il crollo della Jugoslavia. Molti reparti croati si ammutinarono. La Jugoslavia dovette capitolare e l’atto di resa senza condizioni venne firmato a Belgrado la sera del 17 aprile. Re Pietro II fuggì, assieme al suo governo, in esilio a Londra.

      Nei giorni seguenti l’occupazione del Paese balcanico e il suo smantellamento venne completato, a vantaggio delle Potenze vincitrici che poterono rivendicare buona parte dei territori appena occupati. L’Italia si annesse una buona parte della costa dalmata e delle relative isole, costituendo il Governatorato della Dalmazia (con Sebenico, Traù, Spalato e Cattaro), riuscendo in tal modo ad ottenere il pieno controllo delle sponde orientali del Mare Adriatico. L’Italia incorporò inoltre la porzione della Slovenia che confinava con la parte orientale della Venezia Giulia, con Lubiana, un’area abitata interamente da sloveni. Più a sud, l’Albania italiana vide ingrandito il suo territorio con l’aggiunta del Kosovo e del Dibrano, mentre il Montenegro, terra natale della Regina Elena, venne dichiarato Stato indipendente, sotto il protettorato italiano – Figura 14, Figura 14bis e Figura 14ter).

    11. LA RESISTENZA JUGOSLAVA

      Le truppe dell’Asse si limitarono peraltro ad assumere il controllo delle principali arterie stradali, disinteressandosi al resto del territorio prevalentemente montuoso. In tal modo numerosi reparti dell’esercito jugoslavo, sebbene sconfitti, ebbero l’opportunità di darsi alla macchia, conservando buona parte del loro armamento e preparandosi a dar vita ai primi nuclei di resistenza organizzata.

      Le prime bande armate iniziarono le operazioni di guerriglia contro i tedeschi, gli italiani e gli ungheresi. In breve tempo la resistenza si organizzò in modo imponente, in misura ben superiore a quella degli altri Paesi Europei occupati dalle Potenze dell’Asse, anche se la lotta divenne subito convulsa per le fratture delineatesi sin dall’inizio tra forze che avevano teoricamente gli identici nemici

      In un primo momento ad opporsi agli occupatori furono sia il movimento cetnico, di orientamento grande-serbo, guidato dal colonnello Draža Mihajlović, capo dell’Armata Nazionale jugoslava, fedele a Re Pietro II ed al suo Governo in esilio a Londra, sia quello partigiano di orientamento comunista e jugoslavista, guidato da Josip Broz detto Tito. Successivamente invece, partigiani e cetnici entrarono in urta per diversità di natura ed obiettivi. Per combattere meglio contro i partigiani, i cetnici cercarono intese con i comandi italiani, che a loro volta trovarono conveniente utilizzare bande cetniche per opporsi più efficacemente ai partigiani. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 invece, sarebbero stati i comandi germanici a stringere accordi con quelli cetnici, sempre in funzione antipartigiana.

      La guerriglia partigiana e la relativa attività repressiva attuata dalle truppe tedesche ed italiane divenne via via più sanguinosa. I sabotaggi e gli attentati contro gli occupatori divennero più frequenti e, parallelamente, le operazioni di controguerriglia colpirono strati più ampi di popolazione civile, sospettata, a torto o a ragione, di favorire la resistenza.

      La repressione attuata dai Comandi militari italiani fu durissima e le istruzioni fornite ai reparti furono molto particolareggiate. Incendi di villaggi, fucilazioni, confische di bestiame e deportazioni di migliaia di civili produssero paura e sgomento e alimentarono l’odio nei confronti degli occupatori, inducendo molte persone a schierarsi con i partigiani.

    12. I CAMPI DI INTERNAMENTO ITALIANI

      Un elemento importante di risentimento verso gli italiani derivò in particolare dalla deportazione di migliaia di civili sloveni e croati, accusati di militare nelle schiere partigiane o di essere in qualche modo in contatto con la resistenza, che le autorità fasciste fecero rinchiudere in specifici campi di internamento. I campi di Visco e Gonars (in Friuli), di Melada e di Kampor (in Dalmazia), di Renicci, Monito, Chiesanuova, Alatri (divenuto campo profughi dopo l'esodo), Sdraussina e Fossalon di Grado divennero tristemente famosi per aver accolto un numero elevato di persone. La mancanza di cibo e di medicinali dovuta al notevole sovraffollamento di queste strutture detentive fu costante. Tra questi campi, per l’alto numero di vittime, spiccarono Gonars (circa 500 morti) e Kampor (sull’isola di Arbe, con circa 1.500 morti).

      Con la radicalizzazione della lotta partigiana e con la sua estensione a zone più vaste del territorio jugoslavo, vi fu anche un analogo e parallelo aumento del tasso di collaborazionismo delle popolazioni locali con le truppe dell’Asse, con la formazione di reparti militari composti da elementi slavi anticomunisti, quali i “belagardisti” sloveni ed i “domobrani” (soldati regolari di leva croati e sloveni) che assieme agli “ustascia” croati parteciparono attivamente alla repressione del movimento partigiano a fianco delle truppe italiane e tedesche.

      I militari del Regio Esercito italiano presenti nell’area balcanica si trovarono pertanto ad affrontare una guerra che fu veramente “globale”, nel senso che non vi furono prime linee o retrovie come in un conflitto classico, dato che in ogni luogo poteva esserci un’imboscata. Tra il 1942 ed il 1943 il vortice della guerra in Jugoslavia coinvolse l’intera popolazione locale e per tutti i civili era divenuto ormai impossibile restarne al di fuori, dato che le pressioni politiche, ideologiche e nazionali, cui il singolo individuo era sottoposto, si erano fatte ogni giorno più pesanti.

      Complessivamente, nell’intera area jugoslava si sovrapposero in quegli anni:

      • due guerre civili, cioè quella fra croati e serbi – nel corso della quale il regime ustascia utilizzò fra l’altro il campo di concentramento di Jasenovac per l’eliminazione in massa di civili serbi – e quella fra i partigiani comunisti da una parte e “cetnici”, “ustascia”, “domobrani” e “belogardisti” dall’altra;

      • una guerra di liberazione dei partigiani contro gli occupatori;

      • la repressione antipartigiana da parte degli occupatori e dei loro collaboratori;

      • una guerra rivoluzionaria condotta dai partigiani per instaurare un regime comunista;

      • lo sterminio degli ebrei, condotto direttamente dal regime “ustascia” su delega nazista, utilizzando a tal fine anche il campo di Jasenovac.

      Tale intreccio di conflitti generò livelli altissimi di violenza, diffondendo l’abitudine allo stragismo, che fra il 1942 e il 1943 finì per estendersi anche alle province giuliane, nelle quali pure si sviluppò un movimento partigiano sloveno e croato.

    13. L’ARMISTIZIO ITALIANO (8 SETTEMBRE 1943) E LE VIOLENZE DELL’AUTUNNO

      1943 IN ISTRIA

      Il clima politico che si respirava nella Venezia Giulia nei primi giorni del settembre 1943 era del tutto simile a quello del resto d’Italia. Buona parte della popolazione aveva sopportato con rassegnazione i tre lunghi anni di guerra che avevano portato lutti, sofferenze e privazioni e sperava che, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il conflitto si sarebbe concluso quanto prima, possibilmente senza ulteriori sciagure. Il desiderio di pace era condiviso da tutti, anche se a molti non sfuggiva che la particolare situazione della regione, terra di confine con il mondo slavo e con il mondo germanico, poteva avere dei risvolti pieni di incognite.

      Per tale motivo la notizia dell’armistizio italiano, comunicata per radio la sera del 8 settembre 1943, venne accolta senza particolari reazioni di entusiasmo. La presenza tedesca da un lato e l’esistenza di un Movimento di resistenza capeggiato dall’elemento slavo induceva a fare i conti con una realtà che si presentava del tutto incerta. Contemporaneamente i reparti militari italiani di stanza nella Venezia Giulia, in assenza di contatti e collegamenti con i comandi superiori, iniziarono a sbandarsi davanti all’ipotesi dell’aggressione tedesca, dando inizio a quello sfaldamento generale delle forze armate che in pochi giorni portò al collasso totale dell’apparato statale italiano sul territorio.

      La dissoluzione dello Stato Italiano nella Venezia Giulia fu rapidissima e molti paesi e villaggi della regione si trovarono improvvisamente in balia di sé stessi e dei primi venuti. Le principali città giuliane (Trieste, Gorizia, Pola e Fiume) furono occupate subito dopo l’armistizio da colonne motorizzate tedesche che puntarono al controllo delle vie di comunicazione, delle infrastrutture portuali e ferroviarie e al disarmo dei presidi italiani che, in linea di massima, non opposero resistenza. In diversi paesi dell’Istria invece, dove i tedeschi non erano ancora giunti, si verificò un vuoto di potere. In taluni casi si formarono comitati di salute pubblica o comitati civici composti da personalità non compromesse con il passato regime fascista. Nella parte interna dell’Istria comparvero di colpo i partigiani comunisti di Tito che iniziarono ad occupare quelle località dove non c’era più traccia delle forze dell’ordine del Regno d’Italia ed instaurarono i “Poteri Popolari” gestiti dai Comitati Popolare di Liberazione (CPL) orientati verso il Partito Comunista Jugoslavo (PCJ). Parallelamente diversi reparti partigiani dell’Esercito Popolare di Liberazione jugoslavo varcarono il vecchio confine italo-jugoslavo raggiungendo diverse località della penisola istriana e l’Isontino. La situazione divenne caotica, in un clima di crescente anarchia e di violenza diffusa. Vennero saccheggiati magazzini, negozi e dati alle fiamme diversi archivi comunali. Gli abusi ed i soprusi divennero prassi comune a vantaggio di chiunque avesse un’arma.

      Ci furono pestaggi e violenze non solo a carico di coloro che si erano compromessi con il passato regime fascista, ma anche nei confronti di persone assolutamente estranee ed incolpevoli, come ragazze e donne incinte, in un clima di rivolta contadina, con i suoi improvvisi selvaggi furori, in un misto di rivalse sociali, nazionali, politiche, economiche e personali. Le violenze e le uccisioni assunsero valenza non solo ideologica ma anche nazionale per la presenza nelle fila partigiane di numerosi esponenti nazionalisti, i “narodnjaci”, che rivendicavano la Venezia Giulia alla nuova Jugoslavia che volevano costruire.

      In tale ottica vennero presi di mira, arrestati, deportati e uccisi non solo gli appartenenti alle forze dell’ordine (carabinieri, agenti di polizia, guardie forestali e finanzieri), ma pure maestri, bidelli, podestà, segretari e messi comunali, postini: in pratica tutte le figure più rappresentative di quella che era l’Amministrazione statale italiana. La sorte di molte di queste persone, circa 500 nella sola provincia di Pola, rimase avvolta per diverse settimane nel mistero: dapprima si venne a sapere che erano state portate in alcune località adibite a prigione, come ad Albona, Arsia e Pisino. Poi, in molti casi, non si seppe più nulla.

      L’arrivo dei tedeschi, che ad inizio ottobre 1943 scatenarono una violenta offensiva tesa a sgominare l’attività partigiana in tutta la regione, mise fine ai “Poteri popolari”. In pochi giorni le truppe naziste misero a ferro e fuoco ogni paese dove trovarono la minima resistenza, con un pesante tributo pagato non solo dai partigiani ma anche dai civili, soprattutto istro-sloveni e croati, per un totale di circa 2.500 vittime cui va aggiunto un numero imprecisato, ma probabilmente maggiore, di arrestati e deportati in Germania.

    14. LA VICENDA DELLE FOIBE

      Nel corso del settembre - ottobre del 1943 e, in misura molto più ampia, durante la primavera del 1945, le foibe rappresentarono il simbolo di una tragedia spaventosa che colpì la popolazione giuliano-dalmata, quando alcune migliaia di persone vennero uccise dai partigiani di Tito ed i loro corpi furono gettati in parte in queste voragini, in parte nelle fosse comuni o in fondo all’Adriatico, oppure non tornarono dai vari luoghi di prigionia dove vennero detenuti.

      Elemento comune di questo dramma fu la quasi totale mancanza di notizie delle persone deportate che sparirono senza lasciare traccia della loro sorte, per cui nel tempo si è consolidato l’uso del termine foiba nel suo significato soprattutto simbolico, come paradigma di una vicenda molto più ampia, a prescindere dal luogo esatto e dalle specifiche modalità che interessarono le singole uccisioni.

      Vanno dati peraltro alcuni chiarimenti sulla terminologia che è invalsa negli anni successivi quando, per descrivere gli atti di violenza compiuti nel territorio della Venezia Giulia, furono coniati i neologismi “infoibare”, “infoibamenti” ed “infoibati”. Il termine “foibe” divenne nel tempo rappresentativo della fine di tutte le migliaia di persone scomparse senza dare più notizia di sé, uccise a seguito di due distinte ondate di violenza scatenate da elementi del Movimento Popolare di Liberazione jugoslavo, indipendentemente dal luogo fisico preciso della loro morte. Molte di queste persone non furono infatti “infoibate” in cavità naturali del sottosuolo, ma furono uccise in altri diversi modi.

      Molti vennero fucilati o comunque eliminati in modo violento durante la loro deportazione, altri cessarono di vivere per malattia, per stenti o per le esecuzioni sommarie di cui furono vittime nei lunghi periodi di detenzione nelle carceri o nei campi di concentramento situati nelle varie regioni della Jugoslavia. Non indifferente è in particolare il numero di coloro che, dopo il loro arresto, furono uccisi anche parecchi mesi dopo la fine della guerra dagli organi di polizia jugoslavi (Figura 15bis).

      Con le espressioni “foibe” ed “infoibati” si è perciò voluto definire e racchiudere un fenomeno più vasto di quello che letteralmente i due termini starebbero a significare, e che furono assunti in tal modo a simbolo di un travagliato periodo storico del nostro Paese. Il numero complessivo degli eliminati fino ad oggi non è stato possibile stabilirlo.

    15. L’OCCUPAZIONE NAZISTA NELLA VENEZIA GIULIA E IN DALMAZIA

      Nell’ottobre 1943, dopo aver sconfitto gli ultimi reparti partigiani jugoslavi presenti sul territorio, i tedeschi completarono l’occupazione dell’intera Venezia Giulia e della Dalmazia e costituirono l’”Adriatisches Küstenland” (Zona di Operazioni Litorale Adriatico), che riproponeva dal punto di vista geopolitico il vecchio “Litorale Austriaco” di asburgica memoria, collegato al Reich nazista tramite la Carinzia. L’”Adriatisches Küstenland” comprendeva la Venezia Giulia allargata ad alcuni territori limitrofi ed era perciò composta dalle province di Trieste, Gorizia, Pola, Udine, Lubiana e Fiume, quest’ultima con i distretti annessi nel 1941 (Castua, Sussak e l’isola di Veglia) – Figura 15) .I nazisti esercitarono un potere quasi assoluto sulla regione che differiva molto poco da un’effettiva dichiarazione di sovranità, anche se rimasero al loro posto una parte delle autorità locali italiane i cui compiti furono molto limitati dai tedeschi. I nazisti ostacolarono pure la costituzione e l’insediamento di reparti militari della Repubblica Sociale Italiana che, numericamente esigui, dovettero comunque dipendere sotto l’aspetto tattico operativo dalle autorità germaniche.

      Nel corso del 1944 l’attività partigiana del Movimento Popolare di Liberazione riprese vigore e ben presto in tutta la regione ci furono sabotaggi, interruzioni delle linee di comunicazione ed incursioni di sorpresa contro guarnigioni isolate. Le operazioni di controguerriglia da parte sia tedesca che italiana vennero condotte con operazioni di rastrellamento che ebbero lo scopo sia di riprendere il controllo del territorio che di infliggere perdite ai reparti partigiani.

      La Venezia Giulia fu così coinvolta in un lungo stillicidio di attacchi e contrattacchi, agguati, rappresaglie, pattugliamenti, retate, arresti ed uccisioni che insanguinò la regione in una scia di violenze e di morte che si protrasse, a fasi alterne, fino al termine della guerra.

      I tedeschi misero in atto una politica repressiva contro chiunque fosse sospettato di collusione con il movimento partigiano e molte migliaia di persone furono arrestate e deportate in Germania. A Trieste in particolare i nazisti istituirono un campo di detenzione di polizia presso la Risiera di San Sabba, che funzionò come un campo di transito per gli ebrei rastrellati nel Litorale e come luogo di tortura ed eliminazione per partigiani, antifascisti, civili, soprattutto slavi, catturati durante i rastrellamenti. A San Sabba morirono oltre 3.000 persone. Nell’aprile del 1944 venne attivato nella Risiera il forno crematorio, che rimase in funzione fino alla conclusione della guerra ed in cui vennero bruciati i corpi di un numero imprecisato di persone.

      Pochissimi furono gli ebrei che scamparono alle retate tedesche e ancor meno quelli che uscirono vivi dai campi di sterminio nazisti.

      L’intera popolazione civile della Venezia Giulia e della Dalmazia venne così a trovarsi coinvolta in un clima generale di violenze, di varia provenienza, motivate anche dai contrastanti interessi in gioco che vedevano la regione oggetto di fin troppo numerosi scontri nazionali. Anche la Resistenza contro i tedeschi fu assai articolata e la collaborazione fra italiani e jugoslavi si accompagnò a divergenze e conflitti.

    16. ZARA UNA CITTÀ DISTRUTTA

      Zara, roccaforte della presenza italiana in Dalmazia, rimase per oltre tredici mesi, dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, in una posizione drammatica. Occupata militarmente dai tedeschi, continuò ad avere un’amministrazione italiana, grazie anche all’opera del prefetto Vincenzo Serrentino, che riuscì a rintuzzare le ingerenze dei nazisti e dei croati di Pavelić. La città venne continuamente bombardata dall’aviazione angloamericana, probabilmente anche in base alle sollecitazioni dei comandi partigiani jugoslavi, con 54 pesanti incursioni che la colpirono tra il 1943 ed il 1944 e la ridussero ad un cumulo di macerie. In pochi mesi Zara venne rasa al suolo e circa 2.000 dei suoi 21.000 abitanti morirono sotto i bombardamenti. Nello stesso periodo, gran parte degli zaratini abbandonò la città per fuggire verso Trieste e Ancona. Quando i tedeschi si ritirarono dalla Dalmazia ed evacuarono Zara (31 ottobre 1944), la città venne occupata dai partigiani jugoslavi che subito operarono i primi arresti tra coloro che erano rimasti in loco, uccidendo circa 150 persone e deportandone alcune decine verso ignota destinazione.

    17. LA FINE DELLA GUERRA E LE VIOLENZE DEL MAGGIO - GIUGNO 1945

      Nella seconda metà del mese di aprile 1945 le forze armate della Germania nazista, attaccate su più fronti, entrarono nella fase finale di una crisi ormai irreversibile e fu chiaro a tutti che la fine della guerra era questione di giorni.

      In Italia le truppe angloamericane irruppero nella Valle Padana, spingendosi anche verso est in direzione di Venezia e Trieste. Negli stessi giorni l’Esercito di Tito investì il confine orientale d’Italia, puntando ad occupare quanto prima la Venezia Giulia (“Operazione Trieste”), anche a scapito della liberazione di Lubiana e di Zagabria che, infatti, vennero raggiunte dalle truppe jugoslave molto dopo rispetto a Trieste. La resa delle forze germaniche in Italia venne firmata a Caserta il 29 aprile 1945 e divenne effettiva dal 2 maggio.

      I reparti jugoslavi giunsero a Trieste il 1° maggio 1945, anticipando di un giorno neozelandesi, così come anche a Gorizia e a Monfalcone, mentre nei giorni seguenti l’esercito di Tito entrò a Fiume e a Pola, completando l’occupazione dell’intera Venezia Giulia.

      Il 9 giugno però, a seguito degli Accordi di Belgrado, la Venezia Giulia fu divisa in due zone di occupazione militare, separate dalla "linea Morgan": la zona A (Trieste, Gorizia e Pola) sotto amministrazione militare anglo-americana e la zona B (Istria e Fiume) sotto amministrazione militare jugoslava – Figura 16 e Figura 16bis).

      Gli jugoslavi dichiararono l’annessione dell’intera regione e festeggiarono l’avvenimento con manifestazioni e cortei pubblici in tutte le località. Contemporaneamente alla presa del potere da parte delle nuove autorità comuniste, iniziarono gli arresti e le deportazioni di migliaia di persone ad opera della Polizia Segreta jugoslava (l’OZNA) ed in tutta la Venezia Giulia una pesantissima cappa di oppressione e paura avvolse la gran parte della popolazione.

      Molti militari tedeschi ed italiani appena catturati furono fucilati, con esecuzioni sommarie, in spregio ad ogni norma internazionale di tutela dei prigionieri, mentre tanti altri vennero deportati nei campi di prigionia dove fame, malattie e violenze di ogni genere ne causarono la morte in gran numero.

      Per diversi civili la sorte fu simile: una parte degli arrestati venne eliminata quasi subito sia nelle foibe carsiche che in altri modi, mentre ancora maggiore fu il numero di coloro che condivisero la sorte dei militari, venendo deportati nei campi di concentramento situati nell’interno della Jugoslavia. Numerosi membri del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) giuliano vennero arrestati o costretti nuovamente alla clandestinità.

      Le deportazioni e le uccisioni riguardarono soprattutto coloro che, agli occhi dell’OZNA, potevano rappresentare un possibile ostacolo ai piani annessionistici jugoslavi. Come nell’autunno del 1943, così pure nel 1945, per molte persone deportate non ci fu ritorno e l’angoscia dei familiari durò a lungo: in tanti casi non ci fu mai una risposta sulla sorte dei loro congiunti.

    18. LE DEPORTAZIONI DEL 1945

      A differenza del 1943, quando le deportazioni e le uccisioni riguardarono soprattutto l’interno dell’Istria, cioè quelle zone dove i partigiani di Tito presero il potere per circa un mese prima dell’arrivo dei soldati tedeschi, alla fine della guerra le autorità comuniste jugoslave si insediarono in tutte le città e località della Venezia Giulia. L’ondata di violenze a danno della popolazione giuliana avvenne in modo capillare in tutta la Regione e tristemente famosi divennero i nomi dei campi di concentramento dove furono raggruppati i militari ed i civili deportati in quei giorni del maggio – giugno 1945. Molto note furono le strutture detentive di Stara Gradisca, Lepoglava, Borovnica, Prestrane, Maresego, Aidussina, Sisak, Novo Mesto, Sveti Vid, Buccari, mentre diversi detenuti furono imprigionati nelle carceri di Pisino, Pola, Fiume, Albona, Lubiana e Maribor.

      Nel dopoguerra si venne a sapere che in diverse foibe furono gettate numerose vittime di quei drammatici giorni, ma i confini erano ormai cambiati e le ricerche risultarono impossibili. Quasi tutte le foibe carsiche sono rimaste in territorio divenuto poi jugoslavo (oggi sloveno o croato), mentre in Italia sono rimaste le cavità di Basovizza, Monrupino e dell’Abisso Plutone (vicino a Trieste). La voragine di Basovizza (che in realtà non è un abisso naturale, ma è il pozzo di una vecchia miniera abbandonata), è stata dichiarata nel 1992 “Monumento Nazionale” e, nel tempo, è diventata il memoriale principale per tutte le vittime degli eccidi perpetrati dagli jugoslavi di Tito nel 1943 e nel 1945.

    19. TRATTATO DI PACE DI PARIGI

      Con il Trattato di Pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, l’Italia, nazione sconfitta, dovette accettare tutte le pesanti condizioni stabilite dalle Potenze vincitrici. Oltre alla perdita delle colonie in Africa, delle isole del Dodecaneso e di altri possedimenti minori, vennero modificati sia il confine occidentale con la Francia (Briga, Tenda ed alcune vallate alpine) sia, soprattutto, il confine orientale con la Jugoslavia. In particolare, venne sancita la cessione di buona parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito e la creazione del Territorio Libero di Trieste (TLT) – Figura 17 e Figura 17bis).

      Le intere province di Pola, di Fiume, di Zara e la gran parte di quelle di Gorizia e Trieste furono assegnate alla Jugoslavia al termine di un duro e lungo contenzioso che comunque avrebbe avuto degli strascichi, per la questione di Trieste e del relativo Territorio Libero, ancora per molti anni. La Venezia Giulia si trovava comunque già dai primi giorni di maggio del 1945 di fatto separata dal resto d’Italia, essendo stata occupata militarmente dalle truppe dell’Armata Popolare Jugoslava giunte prima dell’arrivo dei reparti angloamericani.

      Quest’occupazione influenzò profondamente gli avvenimenti successivi pregiudicando le aspettative della popolazione italiana che cercò, peraltro inutilmente, di far valere le proprie ragioni davanti alle potenze vincitrici. La regione giuliana venne visitata nel marzo 1946 da una Commissione interalleata avente lo scopo di delimitare i confini tra l’Italia e la Jugoslavia. Ne facevano parte delegati inglesi, americani, francesi e russi e, al termine, della loro visita, ogni delegazione fece una proposta rispondente alla volontà dei propri governi. Le linee ipotizzate differivano molto una dall’altra e il risultato finale deciso a Parigi, con la cessione della gran parte della regione alla Jugoslavia e la creazione del TLT, sancì l’abbandono da parte italiana di territori che avevano gravitato per secoli nella sfera culturale nazionale. A Gorizia, privata del suo retroterra, il confine separò il quartiere di Salcano dal resto della città e la rete che tagliò in due la piazza della ferrovia Transalpina divenne uno dei simboli della “cortina di ferro” in Europa.

      Per quanto riguarda l’Istria, nei giorni in cui a Parigi si era discusso del confine tra i due Paesi, un attentato avvenuto presso la pineta di Vergarolla, a Pola, provocò decine di morti tra i bagnanti che si trovavano sul posto (su circa un centinaio di vittime solo 65 vennero accertate), colpendo profondamente la popolazione civile che ebbe così una ulteriore motivazione per scegliere di abbandonare la propria città.

    20. L’ESODO

      Per molti abitanti della Venezia Giulia il cambio di sovranità tra Italia e Jugoslavia fu traumatico e portò all’esodo di una frazione consistente della popolazione. Su un totale di circa 600.000 persone, che nel 1936 abitavano nei territori poi passati sotto la sovranità jugoslava, una gran parte scelse di abbandonare le proprie case per trasferirsi oltre confine e comunque per vivere in un paese occidentale.

      Diverse furono le cause: il passaggio ad un regime di stampo comunista comportava infatti tante e tali differenze nel modo di vita sul piano economico, politico, sociale, amministrativo, religioso e culturale, che molte persone preferirono perdere tutto ciò che possedevano pur di fuggire da una realtà percepita come ostile e pericolosa.

      L’introduzione della lingua slovena e croata nella vita di tutti i giorni, l’azzeramento delle consuetudini sociali e delle tradizioni, la criminalizzazione della vita religiosa, ed un senso di completa estraneità alla nuova e complessa realtà furono fattori decisivi che influenzarono pesantemente la decisione di partire. La politica degli ammassi, le confische dei beni, il cooperativismo, il “lavoro volontario”, la socializzazione forzata, contribuirono inoltre a far crollare la base economica di molte persone privandole del necessario sostentamento. L’apparato repressivo poliziesco instaurò poi un clima di tensione e sospetto che portò alla negazione delle libertà individuali fondamentali. Molti cittadini furono bollati come “nemici del popolo” e dovettero subire angherie ed abusi di ogni genere, patendo il capestro della cosiddetta giustizia popolare, con processi da farsa e condanne spesso del tutto spropositate ed immotivate.

      L’insieme dei fattori sopra delineati fece sì che partisse un intero popolo, senza distinzione di ceto sociale, con punte del 90% per alcune località della costa e dell’immediato entroterra istriano. Secondo un censimento effettuato dall’ “Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati”, il 45,6% degli esuli erano operai, il 23,4% donne ed anziani, il 17,6% impiegati e dirigenti e solo il 13,4% erano commercianti, artigiani e professionisti.

      L’esodo coprì un periodo di oltre 15 anni, fino alla fine degli anni Cinquanta, ed avvenne alla spicciolata, senza una specifica organizzazione, tranne nel caso di Pola, dove la presenza in loco dell’amministrazione militare alleata fece sì che nell’inverno 1947 le partenze potessero essere organizzate e pianificate dal Comitato per l’esodo. Grazie soprattutto ai viaggi compiuti dalle motonavi “Toscana” e “Grado”, in poche settimane lasciarono Pola circa

      28.000 persone su 41.000 presenti in quel periodo in città (almeno 5.000 persone erano giunte dal circondario).

    21. I CAMPI PROFUGHI

      Furono circa 300.000 le persone che lasciarono le proprie case nella parte di Venezia Giulia ceduta alla Jugoslavia. L’esodo fu massiccio soprattutto nelle principali città della costa (Pola, Fiume, Zara, Rovigno, Parenzo, Albona) e delle isole (Cherso e Lussino), mentre invece fu minore nelle località dell’entroterra. La gran massa dei profughi giunse, dopo aver dovuto abbandonare tutti i beni immobili e parte di quelli mobili, a Trieste, e poi a Gorizia e a Udine, in condizioni estremamente precarie. Molti vennero assistiti da appositi enti pubblici che predisposero una prima accoglienza nelle località di arrivo, salvo poi trasferire una parte degli esuli in successive strutture ricettive disseminate sull’intero territorio nazionale.

      Furono oltre 140 le strutture che accolsero, a più riprese, gli esuli giuliano dalmati: dai Centri Raccolta Profughi (CRP) alle caserme dismesse, dalle scuole alle pensioni ed agli alloggi requisiti. Gli esuli vi rimasero per lunghi periodi, talvolta anche per anni, in condizioni spesso di iniziale promiscuità e di estremo disagio, in attesa di una dimora più decorosa. La solidarietà delle popolazioni locali non fu sempre in linea con le aspettative. Se molti enti locali e tante persone di buona volontà si prodigarono per aiutare i profughi, non mancarono casi invece di ostruzionismo che culminarono in autentica ostilità da parte di coloro che non vollero capire il dramma umano di chi aveva dovuto lasciare la propria terra – Figura 18, Figura 18bis, Figura 18ter e Figura 18quater).

      In tutti gli esuli il distacco dalla terra natia provocò dolore, nostalgia ed amarezza per le troppe incomprensioni che spesso trovarono nei luoghi dove si sistemarono. L’inserimento nel mondo del lavoro e nel tessuto sociale delle località dove erano giunti ad abitare fu peraltro quasi sempre positivo.

      L’esperienza dell’esodo segnò profondamente le persone. Ancora oggi parecchi profughi, nonostante i molti anni passati, non vogliono tornare a vedere i posti che hanno lasciato e spesso mantengono un doloroso riserbo sugli avvenimenti che li videro protagonisti.

      La maggioranza di coloro che lasciarono i territori ceduti preferì, comunque, rimanere soprattutto nelle zone limitrofe al confine (circa 80.000 profughi si sistemarono a Trieste, nell’Isontino e nel vicino Friuli), mentre buona parte degli altri s’insediò nelle altre regioni d’Italia. Notevole fu pure il numero di coloro che abbandonarono del tutto l’Italia. Circa 60- 70.000, secondo alcune stime, emigrarono all’estero, soprattutto nel Nord e Sud America ed in Australia.

    22. IL MEMORANDUM DI LONDRA. TRIESTE TORNA ALL’ITALIA.

      Con il Trattato di Pace del 1947 sarebbe dovuto essere istituito il Territorio Libero di Trieste (TLT), sotto la protezione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma le tensioni della “guerra fredda” non permisero di ultimare le procedure previste per la sua costituzione e pertanto la relativa area rimase divisa in due zone di occupazione provvisoria: la “Zona A” (con Trieste), sotto amministrazione militare angloamericana (GMA), e la “Zona B” (comprendente il Capodistriano ed il Buiese), sotto amministrazione militare jugoslava (VUJA). Nella “Zona B” molte persone rimasero ad abitare ancora per diversi anni nella speranza che, alla luce della mutata situazione politica internazionale, l’intera zona sarebbe stata, prima o poi, restituita all’Italia. Una parte della popolazione sopportò perciò per anni le angherie, le pressioni e le vessazioni titoiste che raggiunsero il loro apice in concomitanza con le elezioni amministrative del 16 aprile 1950 e con le violenze scatenate dal regime nell’ottobre 1953, dopo una dichiarazione angloamericana volta a risolvere la “questione di Trieste”, ma sgradita agli jugoslavi. Nella zona A la situazione politica rimase incandescente, con contrapposte manifestazioni di piazza e scontri fra sostenitori del ritorno all’Italia ovvero dell’annessione alla Jugoslavia. Fra il 1952 ed il 1953 la protesta dei patrioti italiani si indirizzò contro il GMA, accusato di aver abbandonato il precedente sostegno alla causa italiana. Il culmine della tensione venne raggiunto con i tumulti dei primi di novembre del 1954, quando rimasero sul terreno 6 manifestanti italiani.

      Dopo lunghe trattative diplomatiche, il 5 ottobre 1954 venne siglato a Londra il “Memorandum d’Intesa” tra Italia, Jugoslavia, Gran Bretagna e Stati Uniti con cui veniva sancita la fine del TLT e la conseguente estensione dell’amministrazione civile jugoslava alla “Zona B” (nonché di un piccolo pezzo di “Zona A” sui monti di Muggia, a sud di Trieste) e il passaggio all’amministrazione italiana di Trieste e della restante parte della “Zona A” – Figura 19 e Figura 19bis). Mentre a Trieste tutti gli abitanti di sentimenti italiani festeggiarono il ritorno dell’amministrazione italiana, nella “Zona B” molti istriani presero la decisione di partire.

      Se ne andarono dalla ormai ex “Zona B” oltre 24.000 persone, non solo italiane, poiché partirono pure quasi tremila slavi dei paesini adiacenti i centri costieri, questi ultimi compattamente italiani. Dalla ventina di piccoli villaggi e frazioni del Comune di Muggia, che prima dell’accordo di Londra si trovavano nella “Zona A” sotto amministrazione angloamericana, e poi passarono sotto le autorità jugoslave, se ne andarono invece 2.748 persone su 3.492. Anche se il Governo italiano avrebbe rinunciato alla sovranità italiana sulla Zona B appena nel 1975 con la firma del trattato di Osimo, fu quindi ben chiaro, già nel 1954, quale sarebbe stato l’assetto finale del confine, e ciò rappresentò la caduta di ogni residua speranza per tutti coloro che, di lì a poco, sarebbero partiti.

    23. IL TRATTATO DI OSIMO

      La annosa questione del confine orientale d’Italia, di attualità fino all’autunno del 1954, dopo il “Memorandum d’Intesa” di Londra divenne gradualmente secondaria negli interessi dell’opinione pubblica nazionale. Trieste era ritornata italiana e, agli occhi di molti, la partita era ormai chiusa.

      In realtà a Londra non c’era stata, da parte italiana, alcuna rinuncia formale alla sovranità sulla “Zona B” e soprattutto nel mondo degli esuli istriani restava accesa la fiammella della speranza su una possibile ed ipotetica ripresa delle trattative in futuro. Da parte jugoslava c’era invece la volontà di addivenire alla definitiva sistemazione della sovranità sulle parti in oggetto.

      Vi furono lunghe trattative riservate tra il Governo Italiano e quello Jugoslavo e il 10 novembre 1975 ad Osimo venne firmato il Trattato che riconosceva la rinuncia implicita della sovranità italiana sulla “Zona B”. Le proteste da parte delle associazioni degli esuli e di buona parte della popolazione triestina furono molto accese, ma il Trattato di Osimo venne comunque ratificato dal Parlamento ed entrò ufficialmente in vigore il 3 aprile 1977 – Figura 20).

      Le cittadine di Capodistria, Pirano, Isola d’Istria, Buie, Umago e Cittanova erano state, per la sensibilità degli esuli, cedute in un momento storico ben diverso da quello dell’immediato dopoguerra e questa decisione del Governo italiano, presa 30 anni dopo la fine della guerra, venne vissuta come un tradimento da parte di coloro che avevano lasciato le loro città d’origine e che avevano continuato a sperare in un diverso esito della vicenda giuliana.

    24. I BENI ABBANDONATI

      Gli esuli giuliano-dalmati subirono nel tempo diverse ingiustizie, ma una delle più rilevanti fu senz’altro quella che riguardò il loro patrimonio personale. Gli esuli persero tutti i loro beni immobili (case, appartamenti, campagne, terreni, aziende) ed una parte di quelli mobili.

      Il Trattato di Pace del 1947 prevedeva invece (art. 9 dell’allegato XIV) che “i beni, diritti e interessi dei cittadini italiani, che siano residenti permanenti nei territori ceduti alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato, saranno rispettati, su una base di parità rispetto ai diritti dei cittadini dello Stato successore, purché siano stati legittimamente acquisiti”. In realtà in molti casi le autorità jugoslave operarono confische, sequestri,

      espropri e nazionalizzazioni ai danni dei privati proprietari e fu chiaro sin da subito che chiunque fosse partito avrebbe perso i beni rimasti nei territori ceduti. Essendo ormai palese che le autorità jugoslave stavano procedendo ad appropriarsi dei beni dei cittadini italiani, il Governo Italiano nel 1949 si accordò con il Governo Jugoslavo per la conversione dei “beni abbandonati” dagli esuli in un’indennità forfetaria da versare agli stessi profughi e nel 1950 la Jugoslavia si impegnò ad acquistare i beni, per i quali i proprietari optanti avessero rilasciato dichiarazione di vendita.

      Successivamente, con l’Accordo di Belgrado del 18 dicembre 1954, il Governo Italiano utilizzò il valore complessivo dei “beni abbandonati” dagli esuli (stimati all’epoca circa 72 milioni di dollari) per compensare il debito esistente con la Jugoslavia per i danni di guerra sanciti dal Trattato di Pace (125 milioni di dollari). Parallelamente e, anche in virtù di tale compensazione, il Governo Italiano si impegnò ad indennizzare gli esuli per i loro beni, (sebbene in base ai prezzi di mercato del 1938 rivalutati solo in misura limitata), ma nel corso dei decenni vennero erogati soltanto alcuni modesti acconti, mentre è finora mancato un indennizzo equo e soprattutto definitivo a titolo di saldo per una vicenda che si trascina ormai da troppo tempo con un notevole danno economico e morale per chi ha dovuto lasciare, 70 anni fa, la propria terra.

    25. LE COMUNITA’ E LE SCUOLE ITALIANE ESISTENTI IN ISTRIA, FIUME E IN DALMAZIA DOPO L’ESODO

      Se le vicende dell’esodo vennero, nel corso degli anni, confinate in un angolo sempre più buio della storiografia nazionale, man mano che l’interesse per le vicende del confine orientale d’Italia diminuiva, ancora meno conosciuta fu dal dopoguerra ad oggi la sorte toccata a coloro che decisero di restare nella Jugoslavia di Tito o che non poterono andarsene per tutta una serie di svariati motivi. Alcuni rimasero per una precisa scelta di campo politica ed ideologica, molti invece preferirono restare per non lasciare le proprie case, le proprie campagne, il proprio ambiente nativo al quale non volevano rinunciare; altri ancora non vollero lasciare soli i propri vecchi che si rifiutarono di partire (e furono soprattutto le figlie femmine ad accudire gli anziani genitori). Non poche furono poi le domande di opzione per la cittadinanza italiana che vennero bocciate dalle autorità jugoslave (circa 20.000). Il numero degli italiani in Istria, a Fiume ed in Dalmazia scese velocemente sia per l’esodo che continuò fino alla fine degli anni Cinquanta sia per la lenta assimilazione cui furono sottoposti i connazionali rimasti, divenuti nel tempo una minoranza sempre meno consistente. I censimenti jugoslavi del dopoguerra riportarono il continuo e veloce calo della presenza italiana nei territori ceduti e gli ultimi dati segnalano l’esistenza di circa 20.000 persone che nelle attuali Repubbliche di Slovenia e di Croazia si dichiarano ancora di nazionalità italiana.

      L’attuale minoranza italiana esistente in Slovenia e in Croazia è strutturata in una cinquantina di sodalizi, detti “Comunità Italiane (CI)”, situati nelle località dove vi è il più alto numero di connazionali.

      Vi sono anche istituzioni scolastiche in lingua italiana per garantire la possibilità agli alunni della minoranza italiana di apprendere nella propria madre lingua. Tali scuole sono peraltro frequentate anche da allievi della maggioranza. La rete scolastica italiana non è

      numericamente adeguata, dato che non copre tutte le località di insediamento storico dei connazionali.


  4. PARTE QUARTA: PEDAGOGIA E DIDATTICA DELLA FRONTIERA ADRIATICA

    Il bisogno di tramandare memoria di sé e, al tempo, di appropriarsi delle grandi eredità materiali e immateriali, lasciare un segno per mezzo di una testimonianza, indagare con gli strumenti della ricerca, esprimere un giudizio e promuovere la conoscenza marcano la differenza tra culto del passato e storia. Non è possibile pensare che tutto il passato sia storia ma solo quello che, interrogato, ci può dare delle risposte anche parziali e sulle quali costruire delle ipotesi interpretative. Parimenti non si può relativizzare il passato e interpretarlo con i nostri strumenti valoriali culturali e morali, per cui bisogna compiere uno sforzo nel comprendere la mentalità degli uomini del tempo preso in esame, la loro visione del mondo, la loro moralità, il modo di concepire l’esistenza, i valori che essi attribuivano ai fatti, alle cose e alla vita altrui e propria.

    Storia è tutto ciò che cultura e civiltà passate ci hanno lasciato, ovvero letteratura, arte, economia, scienza, tecnica, lingue, spiritualità, costumi mentali, pratiche materiali, nel loro divenire fino al presente in un moto ora lento ora impetuoso dettato dall’impatto di innovazioni ma anche fatti imprevedibili come le catastrofi naturali.

    Una corretta educazione storica premessa a una efficace Educazione alla Cittadinanza europea si fonda sulla conoscenza storica, altrimenti rimane debole auspicio e astratto studio di regole comportamentali e di indirizzi di metodo. Senza la storia non è possibile la consapevolezza della civiltà e con essa della civica educazione che deve essere il fondamento alla formazione del cittadino consapevole. La memoria è inevitabilmente soggettiva e si fonda sul vissuto e sulla percezione dei fatti nel loro divenire, non è riconducibile a un processo di condivisione collettiva, ma il fatto stesso di sapere che c’è una pluralità di memorie può essere il primo passo per il superamento dei pregiudizi e delle ottusità identitarie e promuovere nelle persone uno spirito di cambiamento e miglioramento delle relazioni. A ben vedere nemmeno la storia è comune, se vista come fatto empatico e campo narrativo, casomai i fatti sono comuni ma non i giudizi e le impressioni che hanno generato tra storici, testimoni e protagonisti. Il ricordo è l’oggetto strumentale evocatore ma è esposto a possibili ma non inevitabili manipolazioni da momento che può essere utilizzato per fini polemici a rafforzare o destituire una data posizione.

    Va pure osservato che la storia conosce un interesse diffuso ma ha un sapere impopolare perché spesso scomodo e rifiutato quando contrasta con una certa idea del passato che si è affermata o che è stata conculcata tramite un esercizio politico.

    1. Superare il tempo del “tempo senza storia”

      La storia ha i suoi statuti e anche nella narrazione lo storico deve rendere note le sue fonti, sottoporre il suo lavoro alla verifica e agli strumenti di controllo propri della disciplina. Il tempo ha fatto affiorare nuovi problemi e nuovi interrogativi, ha rivalutato la storia dei vinti, ha riconosciuto la storia di genere, conseguentemente si sente il bisogno di nuove indagini e la ricerca di nuove fonti non tanto per riscrivere la storia ma equilibrarla tra esigenze di verità e uso strumentale.

      Si sta vivendo quello che è stato definito da alcuni studiosi come il tempo senza storia in cui il presente è dominato dalla labilità dei social media, da un presente che continuamente si sovrappone in cui non c’è alcun rapporto con il passato e con la storia che è soprattutto complessità e consistenza.

      Alla fine del XX secolo era avanzata la presunzione di poter procedere senza storia, dichiarandone la sua fine in nome di una ipermodernità in divenire costante e di una globalizzazione manipolabile, e quindi di poter rinunciare alle radici e di privarsi degli strumenti per comprendere le origini di molti fenomeni del presente. Ora si deve constatare che il maggiore dei problemi risiede nel progressivo impoverimento della cultura storica a partire dal mondo della scuola, in cui la trattazione e la conoscenza hanno subito significative riduzioni e mutilazioni, per cui nel migliore dei casi ci si affida all’affabilità del divulgatore di professione, al dispensatore di fatti correlati a giudizi personali e affermazioni ad effetto che trovano sì suffragio ma non sostanza, non pongono problemi – perché la storia problematica non piace – ma sono compensatori dei deficit scolastici di mera conoscenza storica e rassicuranti nella versione e nella ricostruzione di un dato evento.

    2. Perché occuparsi del Confine orientale?

      In una dimensione di frontiera, tutti questi aspetti sono contemplati, perché le differenze presenti sul territorio possono farsi più o meno marcate anche in spazi concentrici e non necessariamente lineari. Ci sono confini visibili e invisibili, segnati dalle religioni praticate, dalle lingue nazionali e dalle culture pratiche, continuamente modellati, insomma sono un insieme di molteplici elementi tutti portatori di una dimensione narrativa. Inoltre, i confini politici sono una convenzione internazionale riconosciuta ma costantemente ridefiniti nella storia a partire dalla loro rigidità. Con la realizzazione dell’Unione europea c’è stata una smaterializzazione dei confini terrestri tra gli Stati contraenti che si sono trasformati in frontiera quale più esteso spazio geografico di scambi perché la differenza tra frontiera e confine sta nella duttilità e permeabilità della prima a fronte della rigidità e impermeabilità del secondo. Però sono sorti altri confini: quello interno monetario segnato dall’adozione dell’euro, quello esterno dell’area Schengen relativo alla circolazione delle persone e dei confini frontali e interni dettati dal trattato di Dublino sull’immigrazione extracomunitaria. Tuttavia, i confini nazionali sussistono in relazione alla cittadinanza e alla sovranità e non coincidono con l’identità individuale o multipla.

      Proprio in quell’area tra Alpi e dorsale adriatica c’è stato un tempo della frontiera e un tempo del confine che si sono alternati in funzione dei rapporti e delle relazioni. Studiare i momenti di rigidità o di crisi del tempo dei confini non preclude l’attenzione al tempo della frontiera.

      Il superamento del concetto di confine, processo lento e generazionale, è dato da una convergenza progressiva su valori condivisi, in primo luogo sulle tradizioni storiche in passato divergenti in seno alla geografia umana europea. Ci sono diversi aspetti che attualmente connotano il senso di confine visibile e invisibile, anche in relazione ai problemi posti dall’emigrazione dal mondo musulmano, di tradizioni, cultura e religione; il multilinguismo radicato in Paesi a forte connotazione plurale come la Svizzera, il Belgio, la Spagna, il Regno Unito, l’Irlanda; l’uso diffuso della lingua inglese come veicolo comunicativo senza confini; la costruzione in passato del mito del primato e dei suoi confini sulla base di false ascendenze storiche e culturali come il Pangermanesimo, il Panslavismo, il Gallicismo,

      il mito della Romanità che hanno instillato il concetto di Grande nazione a congiungere su un territorio tutte le proprie minoranze linguistiche a detrimento delle altre.

      Come nelle altre regioni europee anche nell’area della Frontiera Adriatica per secoli i grandi confini non sono esistiti e la circolazione era regolata a livello locale e regionale da lasciapassare e dazi, marcata da unità di misura e di conto diverse anche se il diritto pubblico nel tempo ha segnato i territori dando precisa connotazione alle differenze antropologiche, culturali e di consuetudini comuni. A iniziare dal XVIII secolo si è introdotto il concetto di confine soprattutto in regioni che erano oggetto di rivendicazione e contesa politica ed economica, quindi strategica ai fini del loro controllo o dello sbocco al mare e ai grandi fiumi navigabili. Anche lungo la Frontiera Adriatica, confini e identità non sono mai stati unidimensionali e la loro costruzione, i primi in relazione alla seconda, hanno avuto una connotazione più forte di quella politica transitoria e oggetto di revisioni spesso per mezzo dei conflitti, per cui il superamento del concetto divisorio è sforzo di democrazia e di civiltà.

    3. Una occasione pedagogica

      Lo studio del Frontiera Adriatica è un’occasione e un’opportunità per affinare degli strumenti idonei alla comprensione delle situazioni conflittuali in aree contese. Ciò che sembrava un problema rimosso dalla storia europea si è riproposto con tutta la sua prepotente forza da non lasciare indifferenti. Il problema casomai è il disarmo delle discipline storiche che ha caratterizzato la Scuola italiana con una riduzione sensibile delle ore di insegnamento e il conseguente impoverimento della cultura storica. Studentesse e studenti tendono a interpretare le vicende storiche non come patrimonio culturale, ma piuttosto come luogo del remoto lontano dalla loro sensibilità, curiosità e poco coinvolgente. Se sopravvive un interesse è grazie alle capacità di un singolo insegnante oppure per tradizione familiare in cui una memoria militante è ancora coltivata ma con il procedere del tempo tutto si fa labile fino allo smarrimento. Se poi si considera che questo argomento possa essere affrontato in una classe in cui ci sia un numero rilevante di figli di immigrati, pur nati in Italia ma provenienti da regioni del mondo che nulla hanno avuto a che fare con le vicende del Frontiera Adriatica, allora la questione si complica. Va individuata una strategia educativa che non sia soltanto l’esercizio commemorativo di Foibe ed Esodo a comprimere una storia più ampia ed articolata di una macroregione complessa. Ecco allora che l’argomento può proporsi come un caso di studio in grado di affrontare e comprendere i motivi per i quali determinati equilibri nei rapporti tra le popolazioni entrano in crisi e si interrompono, perché ci sono ingiustizie, discriminazioni, negazione dei diritti di identità e di cittadinanza, repressioni, persecuzioni, violenze, esodi, espulsioni. Gli interrogativi sono: chi le vittime e chi i persecutori; perché in determinate circostanze gli Stati adottano strumenti che negano i diritti che dovrebbero tutelare; perché è stata fatta la scelta di lasciare la propria terra; quali sono state le condizioni in cui si sono trovati coloro che hanno intrapreso un esodo; come si è formata la memoria a fronte di un lungo silenzio a censurare il dolore del distacco. Sono temi universali purtroppo sempre attuali ma che devono essere equilibrati con una contestualizzazione storica di lungo periodo.

      Per questi motivi è raccomandabile una collocazione curricolare dell’argomento che possa essere compresa nelle discipline storico-umanistiche e anche nell’insegnamento di Ed. Civica a cui può offrire notevoli spunti di applicazione e studio con specifiche unità di apprendimento adeguate al grado di istruzione. In riferimento alle Competenze sociali e civiche indicate dal Consiglio d’Europa (2006) e rimarcate ulteriormente nel 2018 come Competenze per una cultura democratica, gli obiettivi di interazione efficace e costruttiva

      con gli altri, di sviluppo del pensiero critico, di azione socialmente responsabile e di azione democratica possono trovare dei casi di studio nella Frontiera Adriatica elementi di stimolo e potenziamento al processo di cittadinanza attiva, di informazione responsabile, di sviluppo autonomo ad un approccio critico alle fonti e al superamento del pregiudizio e delle faziosità interpretative. L’argomento in oggetto può essere inserito nell’insegnamento di Ed. Civica in quanto concetto pedagogico ampio e fluido: ampio per la comprensione delle istituzioni pubbliche, dei livelli economici e di stabilità politica, dei processi di coesione nazionale e di relazioni internazionali pacifiche; fluido per la presenza di diverse definizioni di cittadinanza, per i criteri di concessione e riconoscimento di cittadinanza, per la conoscenza delle pratiche giuridiche, politiche, economiche e culturali che definiscono una persona come componente della società. L’Ed. Civica è uno dei pochi insegnamenti universalmente previsti nei curricoli nazionali di maggior parte degli Stati europei anche se sussistono delle differenze anche sostanziali tra le rispettive politiche che possono incidere sulla sua concreta messa in pratica.

      Nulla meglio della storia può essere utile per pensare ai modelli politici del passato in relazione al presente e quindi promuovere l’eguaglianza, la coesione sociale, la cittadinanza attiva tramite l’istruzione scolastica. Se in passato l’istruzione era premessa e compimento educativo alla cittadinanza, per cui l’individuo istruito era destinato essere un bravo, leale e patriottico cittadino, oggi si tratta di colmare il divario tra individuo e comunità che talvolta non coincidono: nei regimi totalitari, razzisti o fondati sul settarismo ideologico e religioso il primo è sopraffatto, nelle società liberali spesso l’interesse dell’individuo prevale su quello della comunità dando vita a fenomeni come l’apatia politica e l’anomia.

    4. Una opportunità didattica

      L’argomento della Frontiera Adriatica permette di affrontare diversi temi che possono essere trattati all’interno di moduli interdisciplinari o come unità di apprendimento autonome e già enunciati in precedenza, quali nazionalismi e plurinazionalità, etnicità e nazionalità, emigrazione e immigrazione, rivendicazioni territoriali e conflitti, sopraffazioni nazionali e ideologiche, discriminazioni e tolleranza, convivenza e pacificazione, opportunità economiche, emancipazione sociale, progresso, modernità e sviluppo. Non si tratta solo di informare ma di offrire spunti per un approccio diverso allo studio della storia. Un ruolo determinante è dato dalla metodologia che si intende adottare e che può fondarsi su quattro concetti chiave: sviluppo del pensiero critico, interazione costruttiva con gli altri, attività socialmente responsabile, attività democratica. Ciascun concetto chiave comprende propri campi di azione per lo sviluppo di competenze, recepiti per esempio nelle Competenza in materia di cittadinanza e presentati nel 2018 dal Consiglio d’Europa. Per lo sviluppo del pensiero critico si possono individuare la capacità di vedere da prospettive diverse, di analisi e ragionamento, di apprendimento tramite l’uso delle fonti, dell’esercizio della capacità di giudizio, della capacità di porre delle domande e infine di comprensione del mondo attuale. Con l’interazione costruttiva con gli altri, il rispetto di opinioni altrui e convincimenti diversi, l’empatia, la risoluzione di conflitti, lo sviluppo di conoscenze interculturali. L’attività socialmente responsabile apre agli orizzonti del rispetto della giustizia, dei diritti umani e delle altre culture e religioni, della solidarietà e al senso di appartenenza rafforzato dalla non discriminazione. L’attività democratica, infine, si fonda sul rispetto della democrazia e la conoscenza delle istituzioni politiche, delle organizzazioni, trattati e dichiarazioni internazionali. Sono tutte questioni che hanno investito la Frontiera Adriatica nel corso del XX secolo da cui trarre molteplici spunti di studio e di riflessione.

    5. Strategie educative

      Per affrontare tali argomenti è necessario individuare una strategia educativa e un approccio didattico che tenga conto della metodologia storica, del riconoscimento delle dimensioni geografiche, della periodizzazione, della contestualizzazione, della problematizzazione e di una serie di definizioni chiave che sono proprie delle vicende storiche della regione.

      Si possono adottare dei temi di approccio che qui si intendono presentare come modelli da cui sviluppare il discorso educativo, quali: conflitti, nazionalismi e razzismi, spazi marittimi, globalità. Le guerre rimangono uno dei grandi misteri dell’umanità, ciò che spinge uomini e donne a rischiare la vita sapendo che la sconfitta è una seria possibilità. Poco più di mezzo secolo di pace armata aveva allontanato la guerra dal continente europeo, il periodo più lungo delle età moderna e contemporanea, fino alla violenta dissoluzione jugoslava e da allora a riproporsi ciclicamente nelle sue regioni orientali e nell’Eurasia, lungo assopite faglie di crisi, confini contestati, spazi di rivendicazione. A fronte dell’invenzione moderna della pace, mai duratura, anche l’Europa riscopre il rito antichissimo e ancestrale della guerra con tutte le sue implicazioni. I nazionalismi sono un retaggio del XIX secolo, quando furono inventati e applicati per fornire un principio deterministico dell’unità di una popolazione nel rivendicare l’esercizio legittimo di potere dello Stato su un determinato territorio a cui attribuire una caratteristica culturale univoca. Tale dottrina politica riteneva l’umanità divisa naturalmente per nazioni, riconoscibili per certe caratteristiche, per cui l’unico tipo di governo era appunto quello che si fondava sugli Stati-Nazione e l’organizzazione internazionale su una società di Stati. Il concetto prendeva origine da una rilettura piuttosto creativa dell’imperativo categorico di kantiana memoria e - in forza di quello che è stato definito il “potere delle idee” - l’individuo è stato sostituito dalla nazione e l’appartenenza a un gruppo, che può essere identificato con criteri diversi, in un’ideologia capace di influenzare la politica europea tra Ottocento e Novecento fino ai nostri giorni. Con i nazionalismi, proiettati nelle dimensioni dell’imperialismo, si sono affermati i razzismi, quale dominio degli stereotipi negativi verso tutto ciò che è estraneo, in una dimensione autoreferenziale e di ricerca della sicurezza all’interno di un’identità immutabile. Gli stati nazionali hanno nutrito per molto tempo il sospetto verso l’apertura e la tolleranza cosmopolita, a iniziare dalla scuola in cui hanno plasmato mentalità e convinzioni e adottato pratiche nazionaliste nell’insegnamento della storia. Una prassi oggi ancora presente in diverse parti del mondo in cui prevalgono narrazioni apologetiche, eccezionalismo o, sul versante opposto, la negazione della cultura precedente in nome del revisionismo politico.

      Questi processi negativi possono essere spunto per la comprensione della fragilità dei sistemi democratici e del ripiegamento della società, minacciata da sconvolgimenti e crisi, in un sistema di credenze, di convinzioni o di identità ritenuto saldo malgrado l’esercizio violento che il potere politico manifesta e impone. Parimenti sono utili per capire l’atteggiamento dei dittatori e di quanti giudichiamo violenti o pericolosi e da lì risalire all’origine del loro comportamento.

      Infine, due temi di diverso tenore: spazi marittimi e globalità. La storia dell’Adriatico è storia del Mediterraneo di cui è mare interno. Come il Mediterraneo ha conosciuto della sua storia millenaria fasi alterne da spazio di incroci, intrecci, travasi, spostamenti, contaminazioni culturali, linguistiche, economiche, tecnologiche, a luogo di ansie e di incognite, di spazio conteso, di retaggi di un passato carico di conflitti, scontri, nuovi confini. Area transregionale in cui si sono accentuate le controversie dal 2015 con le nuove rotte

      migratorie mediterranee e danubiano-balcanica. Anche l’Adriatico è stato spazio di intrecci e di inimicizie, di rivalità, di sovranità e di imperialismi; ci sono aspetti comuni, condivisi e contrapposti nella cultura materiale e immateriale tra le due sponde con miti, liturgie, leggende sacre e profane. Con la seconda metà del XIX secolo da spazio circoscritto, con l’apertura del canale di Suez, l’Adriatico è diventato approdo di rotte marittime intercontinentali e ha conosciuto il primo processo di globalizzazione economica agli inizi del Novecento con l’arrivo di merci, beni e materie prime come il greggio destinato alle raffinerie della Germania, di transito di genti, di nuove applicazioni tecnologiche alla navigazione e alle comunicazioni. Per quanto la categoria storiografica di globalità sia sorta negli anni Novanta del XX secolo, in pratica l’approccio comparativo ha sempre mosso la ricerca storica. Si tratta dello studio di ogni mobilità transfrontaliera e le sue conseguenze nel formare spazi multiculturali. Occupandosi di relazioni e interazioni si affrontano pure differenze e somiglianze, cercando di comprendere come esse aumentino, diminuiscano, compaiano e scompaiano nel tempo spesso in forza di spinte esterne più che di processi endogeni. Sono aspetti che vanno tenuti in considerazione dal momento che la dimensione composita della popolazione scolastica non ammette approcci etnocentrici.

    6. Formazione dei docenti

È opportuno tenere conto del portato generazionale degli insegnanti, della popolazione scolastica e degli storici. C’è una profonda differenza tra gli storici che sono nati e si sono formati negli ultimi decenni del secolo scorso e coloro che si sono formati in questo ultimo ventennio. Lo stesso discorso può essere fatto per i docenti in relazione con la generazione del XXI secolo inevitabilmente attratta da altri temi, lontana da riferimenti ideologici, mossa da nuove sensibilità e con un orizzonte globale dato dagli strumenti della comunicazione interpersonale e di esplorazione che possiedono. Però c’è il pericolo di rimanere su un piano generico e facilmente influenzabile da informazioni non controllate dalle quali si tende a dipendere per comodità, rapidità e un po’ di pigrizia. Il problema delle fonti vale per la storia e per l’Ed. Civica come per tutte le altre discipline che non possono prescindere da un impianto di rigore scientifico e critico. In primo luogo, è necessaria la conoscenza di fonti sicure che scoraggino pregiudizi e faziosità interpretative. Quindi è importante concentrare la formazione del docente su metodologia, periodizzazione, contestualizzazione per la costruzione di moduli e unità di apprendimento su alcuni temi in rapporto all’ordine e grado di istruzione.

Sarà cura delle Associazioni proponenti, in accordo con il Ministero dell’Istruzione, individuare le tematiche e stabilire gli appuntamenti per la formazione dei docenti con attività laboratoriali e di seminario mirate all’utilizzo delle fonti e alla progettazione didattica. Ugualmente diffondere i materiali didattici e i riferimenti bibliografici e sitografici più opportuni a tutti gli insegnanti interessati ad affrontare gli argomenti.

La sezione Strumenti in allegato può offrire un primo significativo approccio. Ci sono poi i materiali prodotti dalle classi vincitrici e segnalate al concorso nazionale “10 febbraio” che possono essere messi a disposizione come esempi costruttivi di didattica attiva e di originalità nella ricerca e nell’esecuzione. È importante, altresì, uscire dalla circostanza commemorativa, in quanto i problemi storici che ruotano intorno alla Frontiera Adriatica sono parte significativa della storia italiana e della storia europea dei secoli XIX e XX tra rivendicazioni, conflitti, provvisorietà e pacificazione.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE


Manualistica

M. Cuzzi - G. Rumici - R. Spazzali, (2009), Istria, Quarnero, Dalmazia. Storia di una regione contesa dal 1796 alla fine del XX Secolo, LEG Edizioni.

E. Ivetic (a cura di) (2006), Istria nel tempo, CRS.

Opere a carattere generale

AA.VV. Dall'impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell'area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, 2009.

E. Apih (2015), Trieste, Laterza.

M. Cattaruzza (2006), L'Italia e il confine orientale, 1866-2006, Il Mulino.

F. Cecotti (2010), Il tempo dei confini. Atlante storico dell’Adriatico nord-orientale nel contesto europeo e mediterraneo 1748-2008, IrsmlFVG.

G. de Vergottini – D. Rossi – G.F. Siboni – G. Cevolin – A I. Russo (a cura di) (2012), Fenomenologia di una Macro-regione. Sviluppi economici, mutamenti giuridici ed evoluzioni istituzionali nell’alto adriatico tra età moderna e contemporanea. Volume I – Percorsi storici e storico-giuridici e Volume II – Profili economici ed istituzionali, Leone Editore, Milano,

G. de Vergottini – D. Lo Presti – D. Rossi – E. Bugli – G. Cevolin – I. Russo – G.F. Siboni –

V. Piergigli (a cura di) (2019), Il Territorio Adriatico. Orizzonte storico, geografia del paesaggio, aspetti economici, giuridici e artistici, Tomi III, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

E. Ivetic (2014), Adriatico orientale. Atlante storico di un litorale mediterraneo, CRS.

E. Ivetic (2014), Un confine nel Mediterraneo. L'Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300- 1900), Viella.

E. Ivetic (2010), Storia dell’Adriatico. Un mare e la sua civiltà, Il Mulino, 2019.

Patrick Karlsen, Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941- 1955, LEG.

E. Miletto (2020), Novecento di confine. L'Istria, le foibe, l'esodo, Franco Angeli.

L. Monzali (2015), Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Marsilio.

R. Pupo (2016), La catastrofe dell’italianità adriatica in “Qualestoria” n. 2.

R. Pupo (2018), Fiume città di passione, Laterza.

R. Pupo (2020), Adriatico amarissimo, Laterza.

G. Stelli (2017), Storia di Fiume. Dalle origini ai giorni nostri, Biblioteca dell’immagine.


ALLEGATO


  1. CARTOGRAFIA STORICA*

    STRUMENTI

    Cartella disponibile su www.scuolaeconfineorientale.it

  2. LESSICO

    Sembra utile chiarire qui il significato di alcuni concetti frequentemente usati nella ricerca e nella didattica.

    Cattolicesimo di frontiera

    Con tale espressione s’intende il percorso culturale e politico compiuto negli anni Sessanta del Novecento da alcuni gruppi di cattolici democratici di Gorizia e Trieste, che intesero superare quella fase della “difesa nazionale” che nell’immediato dopoguerra aveva visto i cattolici protagonisti nelle due province. La stagione della “difesa nazionale” era stata caratterizzata da profonde contrapposizioni: a livello internazionale, fra Italia e Jugoslavia; a livello locale, fra patrioti italiani anticomunisti da una parte e slavocomunisti dall’altra. I cattolici democratici triestini e goriziani intesero avviare una fase di distensione sia nei rapporti fra i due stati contermini, che fra le comunità italiana e slovena. Tale programma corrispondeva anche alla necessità di attenuare il peso del confine che tagliava in due il territorio giuliano. Passaggi fondamentali della strategia del cattolicesimo di frontiera furono: la collaborazione economica transfrontaliera, secondo il principio del “confine ponte”, che avviò un’epoca di intensi scambi commerciali; l’avvio dei rapporti istituzionali fra la città italiana di Gorizia e quella slovena di Nova Gorica; l’integrazione della classe dirigente slovena non comunista nelle amministrazioni locali.

    Censimenti etnici

    Con tale termine s’intendono correntemente i risultati relativi all’appartenenza nazionale dei censimenti compiuti nel corso del ‘900 da parte delle autorità asburgiche, italiane e jugoslave. In realtà, il termine è impreciso e il suo uso ingenuo può condurre ad equivoci anche seri, per varie ragioni.

    1. Le diverse autorità che gestirono i censimenti non rilevarono la nazionalità, ma la lingua parlata e quindi registrarono non italiani, tedeschi, sloveni e croati, ecc. ma italofoni, tedescofoni, slovenofoni, croatofoni, ecc.1 Dall’uso linguistico non si può dedurre meccanicamente l’appartenenza nazionale.

    2. Le diverse autorità adottarono criteri di rilevazione diversi: quelle austriache la lingua d’uso; quelle ungheresi (competenti per Fiume) la lingua materna; quelle italiane la lingua d’uso; quelle jugoslave la lingua materna. Nessuno dei due criteri è, astrattamente, giusto o sbagliato, ma producono risultati diversi in riferimento alla medesima popolazione.

    3. Il censimento asburgico del 1910 fu oggetto di contestazioni e revisioni per quanto riguarda Trieste. Gli esiti della prima versione (1911) eseguita dal Municipio a guida italiana vennero contestati dalle associazioni slovene, che ottennero una revisione eseguita dalla Luogotenenza. Talle seconda versione (1912) registrava un minor numero di italiani ed uno


      image

      *mappe e testi sono tratti da: https://confinepiulungo.it e da http://www.regionestoriafvg.eu

      maggiore di sloveni. Questa seconda versione fu quella ufficialmente adottata dal governo austriaco e alla quale si fa solitamente riferimento, ma la stessa statistica austriaca la riteneva scientificamente poco attendibile. Le conseguenze della revisione non riguardarono solo Trieste, ma l’intero Litorale: mentre nella versione 1911 il numero degli italofoni superava la somma di slovenofoni e croatofoni, nella versione 1912 accadeva il contrario.

    4. Per comprendere esattamente la fisionomia nazionale di Trieste alla fine dell’epoca asburgica, va tenuta in considerazione la presenza in città di circa 50.000 cittadini del Regno d’Italia immigrati per ragioni economiche. Grazie ai privilegi di cui godeva il Municipio alcuni di questi vennero assunti nell’amministrazione comunale quali pubblici dipendenti, nonostante non fossero cittadini austriaci. I nomi di alcuni di loro compaiono solitamente negli elenchi dei “volontari irredenti” nell’esercito italiano durante la Grande guerra, nonostante fossero cittadini italiani mobilitati nel regio esercito.

    5. Dall’esame delle sequenze dei censimenti è facile osservare che, a livello di comuni, il cambio di amministrazione da italiana a croata o viceversa si rifletteva quasi immediatamente sui risultati dei censimenti, rendendo legittimo il sospetto di manipolazioni antagoniste, rese possibili dalle modalità di rilevazione.

    6. Nel passaggio del Litorale dall’Austria all’Italia i limiti territoriali cambiarono: alcune parti furono assegnate alla Jugoslavia, mentre l’Italia annesse anche il Tarvisiano, che non faceva parte del Litorale. Di conseguenza, i confronti non sono immediati.

    7. Nel censimento italiano del 1921 i dati relativi ad alcuni paesi che si trasformarono di colpo da compattamente slavi a compattamente italiani risultavano evidentemente manipolati. Fin dagli anni ’60 del ‘900 alcuni studiosi italiani hanno provveduto a correggerli con procedure non banali: i risultati ottenuti sono scientificamente attendibili, ma non ufficiali e ciò complica le comparazioni.

    8. Durante il periodo dell’amministrazione italiana i limiti dei comuni sono in molti casi cambiati e ciò rende impossibili i confronti meccanici con i censimenti precedenti. Per questo alcuni studiosi hanno compiuto i necessari adeguamenti con risultati scientificamente buoni, ma non ufficiali e ciò complica le comparazioni.

    9. Il censimento italiano del 1939 ebbe carattere riservato: vale a dire, che venne eseguito a tavolino da fiduciari locali, senza interpellare direttamente i cittadini. Trattandosi di una rilevazione compiuta per finalità interne (cioè conoscere esattamente la situazione nazionale in tutte le terre di confine) e non propagandistiche, i suoi risultati sono considerati piuttosto attendibili, ma non hanno carattere ufficiale e quindi vanno trattati con prudenza.

    10. Il censimento jugoslavo del 1945 venne eseguito per finalità propagandistiche, condotto in buona parte da fiduciari locali e comunque in un clima di intimidazione. Per questo i suoi risultati non sono mai stati considerati attendibili e dunque non sono utilizzabili per comparazioni, ma risultano interessanti come testimonianza dell’immagine che le autorità jugoslave avevano dei rapporti nazionali nei territori rivendicati dal governo di Belgrado.

    Tali considerazioni non negano la possibilità di utilizzare i dati dei censimenti linguistici a fini didattici, ma pongono come condizione la disponibilità di un gruppo docente dotato

    delle opportune competenze non solo storiche, ma anche matematiche e statistiche, in una logica pluridisciplinare.

    Un discorso a parte è quello riguardante le rappresentazioni cartografiche degli esiti dei censimenti linguistici fatti passare per etnici. Risultano abbastanza diffuse a livello didattico per la loro apparente facilità, mentre in realtà nascondono molte insidie. Talvolta gli autori delle mappe manipolano – leggermente ma quanto basta – i dati raccolti riguardo alcune località critiche; altre volte li rielaborano secondo propri criteri; in altri casi ancora rappresentano i dati medesimi mediante soluzioni grafiche che orientano visivamente il lettore verso la tesi preferita dai dirigenti dei movimenti nazionali concorrenti, ad esempio quelle riassumibili negli slogan secondo i quali le città italiane erano “isole nel mare slavo” ovvero “oasi nel deserto slavo”.

    Anche le rappresentazioni cartografiche possono venir utilizzate nella didattica, ma non in maniera ingenua e solo da parte di docenti opportunamente formati.

    Comitati di liberazione (italiani)

    L’organo politico della Resistenza italiana era il Comitato di liberazione nazionale, formato dai delegati dei partiti antifascisti: Partito comunista italiano, Democrazia cristiana, Partito socialista italiano, Partito d’azione, Democrazia del lavoro, Partito liberale italiano. Il modello resistenziale italiano, infatti, mutuato da quello francese, era di impianto multipartitico, fondato cioè sui partiti antifascisti. Costituitosi il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio, il CLN si diramò poi al livello regionale e provinciale.

    Comunismo adriatico

    Nel periodo fra il 1943 e il 1954, come è emerso da studi recenti, il comunismo italiano e jugoslavo furono tutt’altro che sintonici nella gestione politica delle crisi che si verificarono alla Frontiera Adriatica. Vi era, intanto, una sostanziale differenza nella interpretazione dell’indirizzo di Stalin in merito alla politica dei fronti popolari. Togliatti puntava realisticamente sull’acquisizione di un ruolo determinante del PCI nella collaborazione con le altre forze antifasciste non comuniste, comunque in un’ottica almeno formalmente pluralistica (il “partito nuovo” e la “democrazia progressiva”). Il comunismo jugoslavo invece prevedeva una politica dei fronti popolari basata sul controllo “dal basso” del Partito comunista, in grado di escludere ogni altra forza ostile o “borghese”. Questa linea fu adottata da Tito nella guerra di liberazione jugoslava e nel 1943-45, essa si scontrò con quella di Togliatti, il cui partito faceva parte di un governo di coalizione con i partiti del Comitati di Liberazione Nazionale (CLN). Il caso di Trieste fu emblematico. Se Togliatti dovette fare i conti non solo con le coalizioni governative – dove la DC non era certo disponibile a rinunciare a Trieste – ma anche e soprattutto con la situazione internazionale di un’Italia saldamente inserita nel blocco occidentale, Tito invece non soltanto puntava all’annessione della città giuliana ma poneva contemporaneamente le basi per un progetto egemonico jugoslavo nell’area balcanica. Questa differente impostazione di fondo ebbe influenza nel determinare la posizione del “comunismo adriatico” – di fatto, quello triestino – che dovette assumere una posizione ambigua e contraddittoria: da un lato esso non poteva contestare apertamente la “fratellanza italo-slava”, dall’altro era comunque costretto a sostenere almeno l’internazionalizzazione di Trieste e la sua indipendenza sia dall’Italia, sia da

    Belgrado. Ciò determinò nel PCI le basi del contrasto con Tito, che poi esplose ufficialmente nel 1948 in seguito alla rottura tra il capo jugoslavo e Stalin, proprio per le mire egemoniche nel nazional-comunismo jugoslavo sui Balcani che Stalin non poteva consentire.

    Con il Memorandum del 1954 e il ritorno di Trieste all’Italia, il ruolo del comunismo adriatico perse di significato, soprattutto a causa degli effetti della destalinizzazione e dei buoni rapporti che i nuovi vertici del Cremlino cercarono di stabilire con Tito.


    Controesodo

    Il termine venne inventato, con intenti di propaganda, da parte jugoslava e comunista italiana, per indicare il trasferimento volontario in Jugoslavia di alcune migliaia di cittadini italiani residenti in massima parte a Monfalcone, quasi tutti operai del cantiere navale, dopo che il Trattato di Pace entrato in vigore il 15 settembre 1947 ebbe confermato la sovranità italiana sulla parte meridionale della provincia di Gorizia, Monfalcone compresa. Ovviamente il paragone non regge con l’Esodo dei giuliano-dalmati, che coinvolse invece alcune centinaia di migliaia di persone, tuttavia è entrato nell’uso storiografico per individuare un fenomeno certamente rilevante: una parte significativa della classe operaia monfalconese di lingua italiana si era duramente battuta nel 1945 e nel 1946 per l’annessione del territorio alla Jugoslavia comunista e, fallito l’obiettivo, preferì emigrare nella convinzione di poter costruire il socialismo sotto la guida di Tito. I “monfalconesi” si concentrarono prevalentemente a Fiume, venendo alloggiati nelle abitazioni abbandonate dagli esuli italiani. Dopo pochi mesi di idillio però, intervenne la crisi del Cominform, che costrinse tutti i comunisti residenti in Jugoslavia a scegliere fra Tito e Stalin. I “monfalconesi”, assieme alla maggior parte dei comunisti istriani di lingua italiana, si schierarono in massa dalla parte di Stalin e per questo vennero duramente perseguitati dal regime titoista. Molti furono gli arresti ed alcune decine di loro dirigenti vennero inviati nei campi di “rieducazione”, fra i quali il più famigerato fu quello dell’Isola Calva / Goli Otok. Quasi tutti i “monfalconesi” fecero poi ritorno in Italia, mentre i comunisti istriani presero anch’essi la via dell’Esodo, come gli altri italiani.

    Dalmazia

    La Dalmazia è una regione adriatica, connotata da coste molto frastagliate e da numerose isole, la maggior parte di piccole dimensioni; all’interno è delimitata da una serie ininterrotta di catene montuose, le Alpi Bebie, le Alpi Dinariche e i rilievi del Montenegro. I centri principali sono Zara, Sebenico, Spalato e Ragusa, che furono particolarmente fiorenti dal punto di vista economico e commerciale durante la Repubblica di Venezia, che mantenne il suo potere nella regione dall’inizio del XV secolo alla fine del XVIII. Caduta la Serenissima nel 1797, la Dalmazia passò prima sotto Napoleone, quindi sotto gli Asburgo, fino alla fine della Prima guerra mondiale. Nella seconda metà dell’Ottocento fu teatro della rivalità fra irredentismo autonomista (italiano) e irredentismo illirico, mentre la politica di Vienna, a partire dal 1866, mostrava di favorire le istanze nazionali slave contro quelle italiane, soprattutto in seguito alla Terza guerra d’indipendenza. Nonostante la collaborazione con le comunità serbe – in funzione anticroata e antimperiale – l’elemento italiano fu marginalizzato e smise di fatto di costituire la classe dirigente nelle principali città dalmate, ad eccezione di Zara; ciò favorì la nascita di un irredentismo italiano, segretamente favorito da Roma e

    soprattutto dalla Società nazionale “Dante Alighieri”, in nome della tutela della lingua italiana che, dal 1909, fu vietata in tutti gli uffici pubblici. Con il patto di Londra (1915) all’Italia fu promesso un terzo circa della Dalmazia, con Zara e Sebenico, ma, dopo la fine della Prima guerra mondiale, con il Trattato di Rapallo, fu riconosciuta all’Italia soltanto la città di Zara. Nel 1941-43, dopo la sconfitta della Jugoslavia da parte delle potenze dell’Asse e la creazione del Regno di Croazia, all’Italia furono assegnate, oltre a Zara, le principali città costiere della Dalmazia settentrionale (Spalato, Ragusa e Sebenico), e le Bocche di Cattaro che costituirono il Governatorato della Dalmazia. Dopo la Seconda guerra mondiale tutta la Dalmazia fu annessa alla Repubblica Federitiva di Jugoslavia; dopo la sua dissoluzione, la maggior parte della regione fece parte della Repubblica di Croazia, mentre una piccola parte (le Bocche di Cattaro e Budua) furono aggregate alla Repubblica del Montenegro e una piccola striscia costiera fu assegnata alla Repubblica di Bosnia ed Erzegovina per consentire lo sbocco al mare.

    Esodo

    Il termine esodo si riferisce sul piano generale ad una specifica tipologia di spostamento forzato di popolazione, diversa nei metodi dalle deportazioni e dalle espulsioni e fondata sulla creazione, da parte del potere vigente in un territorio, di condizioni ambientali così avverse (sotto il profilo economico, sociale, politico, nazionale, religioso) da indurre un gruppo, designato in riferimento a caratteri variabili, a prendere la via dell’esilio. Per Esodo giuliano-dalmata, scritto maiuscolo e/o talvolta virgolettato, s’intende specificamente l’allontanamento forzato dai territori d’insediamento storico della quasi totalità del gruppo nazionale italiano residente nelle aree, già facenti parte dello stato italiano, passate a diverso titolo sotto controllo jugoslavo dopo la Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, una quantizzazione precisa è impossibile ma dai dati più recenti si stima il complesso del numero dei profughi, in tutto l’arco del “grande esodo”, in circa 300 mila persone.

    Fascismo di confine

    Un mese dopo la nascita dei fasci di Combattimento, a Milano, il 23 marzo 1919, si costituiva il fascio di Trieste. Per qualche mese i fascisti triestini ebbero caratteristiche simili a quelle del movimento a livello nazionale: pulsioni sindacal-rivoluzionarie, nazionalismo, repubblicanesimo, antigiolittismo. A ciò accompagnarono un radicale antislavismo: non a caso, la loro prima azione significativa fu l’incendio a Trieste del Narodni dom, il 13 luglio 1920, seguìto agli incidenti di Spalato di due giorni prima. L’incendio della casa simbolo delle associazioni slave a Trieste segnò una frattura nella metodologia della lotta politica del capoluogo giuliano in quanto, per la prima volta, si verificò una inedita collaborazione tra militari e fascisti, determinando un salto di qualità nel ruolo politico del fascismo. Analoghe situazioni si verificarono a Pola, Fiume e Bolzano, in termini diversi, che mostrarono come, già prima dell’assunzione del potere, il fascismo si giovasse della collaborazione dello Stato o tentasse di sostituirvisi. In qualche modo, il “fascismo di confine” anticipava a Trieste la svolta a destra – con tutti i relativi rapporti con l’apparato statale, dai Prefetti alla polizia – che Mussolini aveva impresso al suo movimento dopo il fallimentare esito delle elezioni del 1919, dopo l’impresa fiumana e dopo la comparsa, nelle Valle Padana, del “fascismo agrario”. Con l’espressione “fascismo di confine”, più in generale, si intende la politica del fascismo, una volta giunto al potere, di assimilazione linguistica delle comunità “alloglotte”

    attraverso l’istruzione esclusiva in lingua italiana, nonché le altre forme nelle quali si espresse il tentativo di snazionalizzazione operato dal regime. In particolare, ci si riferisce alla riforma scolastica del 1923, ai decreti del 1926 relativi alla abolizione delle autonomie comunali e a tutte le norme, note come leggi “fascistissime” che tra il 1926 e il 1928 modificarono radicalmente la struttura dello Stato liberale italiano e intervennero a rendere praticamente impossibile ogni forma di autonomia culturale nelle province dove erano presenti minoranze linguistiche.

    A partire dal 1938, la campagna antisemita del regime ebbe conseguenze particolarmente pesanti a Trieste – la cui classe dirigente tradizionale era in buona misura di origine ebraica – e a Fiume, qui soprattutto per la presenza di un gran numero di ebrei provenienti dal Centro Europa.

    Foibe

    Il termine foibe si riferisce alla definizione dialettale istro-veneta, non scientifica, degli abissi carsici; una definizione che talvolta può riguardare anche le cavità di origine artificiale, come quelle minerarie. Ne è un esempio la foiba di Basovizza, il cui nome autentico è “pozzo della miniera”. Il termine Foibe scritto maiuscolo e/o talvolta virgolettato, si riferisce alle stragi, nella massima parte di italiani, avvenute nella Venezia Giulia, a Zara ed a Fiume in due momenti specifici, l’autunno del 1943 e la primavera-estate del 1945, cui va aggiunto l’autunno 1944 per quanto riguarda la sola Zara. Il termine infoibati designa letteralmente le persone gettate, morte o vive, nelle foibe. Il termine Infoibati, scritto maiuscolo e/o talvolta virgolettato, si riferisce a tutte le vittime delle stragi di cui sopra, a prescindere dal modo in cui vennero uccise ed in cui vennero fatte sparire le loro salme (ad esempio, oltre che nelle foibe, nelle cavità minerarie ed in mare); in questo senso, il termine può essere esteso anche ai deceduti in deportazione ovvero a coloro che sono spariti senza dar più notizia di sé, anche se sarebbe più preciso e meno soggetto ad equivoci usare la formula uccisi e scomparsi. Caratteristica delle Foibe è di essere avvenute al di fuori delle operazioni belliche, il che spinge a collocarle tra i crimini contro l’umanità piuttosto che fra i crimini di guerra. Per questo, non vanno confuse con le uccisioni avvenute durante la guerra partigiana, anche se talora queste ultime hanno visto l’infoibamento come modalità di occultamento dei cadaveri.

    Fratellanza italo-slava

    “Fratellanza italo-slava” si chiamava la politica adottata dapprima (1944) dal movimento di liberazione e poi dal regime comunista jugoslavo nei confronti degli italiani residenti nei territori rivendicati dal governo di Belgrado. Tale politica costituiva la base dell’accordo raggiunto con il partito comunista italiano, in base al quale il PCI avrebbe fatto confluire le proprie organizzazioni politiche e militari esistenti nella Venezia Giulia in quelle del Fronte di liberazione jugoslavo, avrebbe facilitato l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia e del Friuli ed avrebbe di fatto sostenuto le rivendicazioni territoriali jugoslave, con una riserva pubblica su Trieste; in cambio il regime jugoslavo non avrebbe espulso tutti gli italiani, com’era invece previsto per i tedeschi e gli ungheresi, ma avrebbe considerato il gruppo nazionale italiano come una minoranza nazionale da tutelare.

    Peraltro, da tale minoranza tutelata andavano pregiudizialmente esclusi tutti i cittadini italiani di origine slava (che secondo stime jugoslave erano assai numerosi), i fascisti (erano ritenuti tali tutti gli esponenti del potere italiano nelle istituzioni, la politica e la cultura), gli sciovinisti/imperialisti (cioè coloro che desideravano il mantenimento della sovranità italiana) i borghesi (cioè tutti i ceti diversi dalla classe operaia e dai contadini poveri) e, più tardi, i cominformisti (cioè i sostenitori di Stalin contro Tito). Per di più, la politica della “fratellanza”, elaborata dai vertici repubblicani e federali del partito comunista jugoslavo, venne applicata da una classe dirigente locale che ci credeva poco o nulla, commettendo una lunghissima serie di quelli che dalle autorità superiori venivano chiamati “errori e deviazioni”. Alla fine, entro i parametri richiesti non rimase quasi nessuno.

    Fronte di liberazione (sloveno e croato)

    A differenza del modello francese e di quello italiano, gli organi politici del movimento di liberazione jugoslavo non si fondavano sui partiti, ma sui “movimenti di massa” (dei giovani, delle donne, dei lavoratori, ecc.). Ai movimenti di massa potevano aderire volontari di ogni provenienza politica, ad esclusione però dei quadri dei diversi partiti; di fatto, la guida di tutte le organizzazioni di massa spettava ai quadri del partito comunista clandestino, i cui organi costituivano il vero centro decisionale dell’intero movimento resistenziale. L’insieme dei movimenti di massa costituiva il Fronte di liberazione, articolato a livello delle nazionalità considerate costitutive del futuro stato jugoslavo: esistevano così un Fronte di liberazione sloveno (Osvobodilna Fronta, OF), uno croato, uno serbo, ecc.

    Irredentismo

    L’ irredentismo non è sinonimo di patriottismo o di nazionalismo. L’irredentismo è il movimento promosso da un gruppo nazionale che risiede in un territorio appartenente ad uno stato diverso dalla Madrepatria (cioè dallo stato nazionale di riferimento del gruppo) e nel quale si sente oppresso. Perciò gli irredentisti desiderano che il loro territorio si distacchi dallo stato di appartenenza, ritenuto straniero, per aggregarsi invece alla Madrepatria. Il termine “irredentismo” venne coniato nel 1877 dal patriota garibaldino Matteo Renato Imbriani e rimanda al linguaggio religioso proprio della “religione della patria”.

    L’irredentismo adriatico conobbe due stagioni. La prima, a cavallo fra Ottocento e Novecento, quando i patrioti italiani si batterono per il distacco della Venezia Giulia e della Dalmazia dall’Impero asburgico e per la loro annessione al Regno d’Italia. La seconda, dopo il 1945 e fino al 1954, quando i patrioti giuliani si batterono per il ritorno all’Italia di Gorizia, Trieste e l’Istria, occupate dalle truppe alleate e rivendicate dalla Jugoslavia. Per Trieste e Gorizia ebbero successo, ma non altrettanto per l’Istria.

    Vi fu anche un irredentismo sloveno e croato, espressione della volontà dei patrioti delle due nazioni di sottrarre alla sovranità italiana i territori giuliani in cui abitava una consistente comunità slava, oppressa dal fascismo. Tali istanze furono coronate da successo dopo la sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale, ad eccezione di Gorizia e Trieste, rimaste in Italia.

    Istria

    L’Istria è una penisola che si protende nel mare all’estremità superiore dell’Adriatico, con il vertice rivolto a sud, mentre a nord è delimitata dall’altipiano Carsico. È possibile distinguere un’Istria montana (o bianca, o grigia) calcarea, un’Istria verde, boscosa, ed un’Istria rossa, dal colore del terreno ferroso. I suoi centri principali sono Capodistria, Parenzo, Pisino, Rovigno e Pola. Nel corso dell’età moderna venne divisa fra la Repubblica di Venezia e l’Impero asburgico, che la annesse integralmente dopo la scomparsa dello Stato veneto nel 1797. In epoca asburgica fece parte del Litorale Austriaco, mentre nel 1921 venne annessa all’Italia. Dopo il 1924 venne divisa fra la provincia di Pola e quella di Fiume. Nel 1947 venne annessa quasi completamente dalla Jugoslavia. Una striscia costiera nord- occidentale avrebbe dovuto dare vita, assieme a Trieste, al Territorio libero di Trieste. Tale stato indipendente non venne però costituito e la striscia costiera, denominata “Zona B”, rimase sotto amministrazione militare jugoslava. Con il Memorandum di Londra il governo jugoslavo vi estese la sua amministrazione e ne divise il territorio fra le repubbliche socialiste di Slovenia e di Croazia. La sovranità jugoslava sull’ex zona B venne formalmente riconosciuta a livello internazionale con il Trattato di Osimo del 1975. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, il Capodistriano è entrato a far parte della Slovenia, il resto dell’Istria della Croazia.

    Liberal-nazionale

    A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, a Trieste emerse il Partito liberal-nazionale, una formazione nata alla fine degli anni Sessanta che sviluppava, sul solco della vecchia tematica autonomistica, una politica di difesa dell’identità nazionale, senza sostenere apertamente le tesi irredentistiche; ciò in ossequio alla politica estera filotriplicista di Roma. La sua penetrazione nella società era garantita da una fitta rete di circoli e di associazioni in grado di interessare e aggregare vari ambiti sociali, dal pubblico impiego locale, al commercio e al mondo giovanile. Tra le associazioni più vicine ai liberal-nazionali, ricordiamo principalmente la Lega Nazionale e le società ginnastiche e sportive.

    Fortemente legato al pensiero risorgimentale liberale, e quindi propenso verso una cultura liberale e costituzionale, in alcuni casi conservatrice ma non reazionaria, il movimento nazional-liberale triestino risentì nettamente della sua condizione di frontiera; soprattutto si sentì investito del compito di tutela e di promozione della cultura italiana laddove poteva sentirsi minacciata da altre culture. Le eventuali minacce provenivano dalle culture tedesca e slava: in particolare da quando quest’ultima manifestava segni evidenti di indipendenza e di autonomia nazionale rispetto alla Duplice monarchia. In questa situazione, alla fine del XIX secolo, i nazional-liberali si trovarono a doversi confrontare nelle competizioni politiche triestine sia con il socialismo internazionalista, sia con l’irredentismo slavo.

    Nei primi dieci anni del nuovo secolo, lo scontro tra i due movimenti nazionali, quello italiano e quello slavo, si sviluppò con particolare virulenza, radicalizzandosi. Ciò si verificò sia per l’evolversi della situazione internazionale (i mancati compensi all’Italia, nel 1908- 1909, in seguito all’acquisizione da parte dell’Austria della Bosnia-Erzegovina, e la guerra di Libia), sia per la politica di appoggio all’elemento slavo operata dal governo austriaco in nome del “trialismo” Il movimento nazional-liberale si orientò sempre più verso un deciso

    irredentismo, appoggiandosi da un lato ai gruppi di ispirazione mazziniana e dall’altro ai nazionalisti che, nati in Italia nel 1910, propugnavano una politica estera più attiva in senso imperialista.

    Litorale Adriatico

    In epoca asburgica la regione al confine con l’Italia era denominata “Litorale austriaco” e comprendeva la Contea di Gorizia e Gradisca, la Città di Trieste ed il Margraviato d’Istria, che, oltra alla penisola, comprendeva anche le isole maggiori di Cherso, Lussino e Veglia. Contigua al Litorale era la Città di Fiume, appartenente al regno d’Ungheria (anch’esso parte dei possedimenti asburgici ma dal 1867 Regno autonomo) come Corpus separatum, dipendente cioè direttamente dal governo di Budapest e non tramite la Dieta croata.

    Nella cultura politica slovena invece, il termine “Litorale sloveno” (Slovensko Primorje) comprende tutta la fascia di confine verso l’Italia e cioè le valli dell’Isonzo e del Vipacco, il Goriziano, il Carso triestino e la costa fino al fiume Dragogna, oltre il quale comincia l’Istria (Istra in sloveno e croato).

    Durante l’occupazione tedesca successiva all’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana vennero comprese nella “Zona di operazioni Litorale Adriatico” (Operationszone Adriatisches Küstenland OZAK) posta sotto diretta amministrazione germanica e di fatto sottratta a quella della Repubblica sociale italiana.

    Memoria condivisa

    Si tratta di un auspicio frequentemente formulato in sede politica in quanto considerato passaggio strategico nell’ambito di un percorso di riconciliazione fra popoli contermini nella prospettiva di una comune cittadinanza europea. L’intento è nobile, ma non tiene adeguatamente conto di una difficoltà strutturale: le memorie, individuali e collettive, rappresentano il momento della soggettività, fortemente marcata dalle esperienze drammatiche vissute, e non sono interscambiabili. Per costruire percorsi riconciliativi plausibili sembra opportuno piuttosto procedere per tappe. 1. Il riconoscimento delle memorie altrui, anche diverse dalle proprie, relative al medesimo territorio ed al medesimo periodo storico. 2. Il rispetto per le altrui memorie di sofferenza, che può arrivare fino alla condivisione del lutto, secondo l’esempio offerto a Basovizza nel 2020 dai presidenti Mattarella e Pahor. 3. La purificazione della memoria, intesa come sofferta consapevolezza che la propria memoria dolente non può far da schermo alle colpe della propria storia.

    Negazionismo

    Nell’ambito storico, è l’atteggiamento di negazione pregiudiziale di eventi la cui realtà è considerata inaccettabile alla luce delle proprie convinzioni. Il termine è normalmente riferito alla Shoah, ma può venir esteso anche ad altri fenomeni. Nel caso della storia adriatica, di solito riguarda il rifiuto di alcuni interpreti di accettare l’esistenza di vicende quali le Foibe e l’Esodo ovvero, più frequentemente e sottilmente, di sminuirne la portata e di negarne la valenza politica.

    Da un punto di vista metodologico, il negazionismo applica un metodo ipercritico che, partendo dalla normale critica delle fonti, finisce per negare credibilità a tutte le fonti che contraddicono l’interpretazione preferita. Spesso il negazionismo parte dalla critica di errori puntuali effettivamente presenti nelle testimonianze per inficiarne la validità complessiva, ovvero dalla denuncia di esagerazioni, deformazioni, manipolazioni e strumentalizzazioni compiute nella presentazione dei fatti, per giungere a smentirne l’esistenza.

    Alcuni esempi. Partendo dalla critica delle più evidenti esagerazioni nella quantificazione delle stragi conosciute come Foibe si può arrivare fino a negare che le stragi stesse siano effettivamente avvenute, seppur su scala più ridotta. Oppure, attirare l’attenzione sulle motivazioni individuali delle singole uccisioni, serve a nascondere l’esistenza dietro alle stragi di un disegno repressivo organizzato. Ancora, la preoccupazione di difendere il movimento di liberazione dalle critiche pregiudiziali, porta ad assumere in sede interpretativa il medesimo punto di vista degli autori delle stragi, ribaltando sulle vittime l’onere di provare la loro innocenza. Quanto all’Esodo, consiste nel rifiuto di prendere in considerazione le ragioni politiche del fenomeno, come risposta al comportamento delle autorità jugoslave, motivandolo invece esclusivamente con ragioni economiche (ricerca del benessere ad Occidente) ovvero con le conseguenze di una mai dimostrata attività propagandistica italiana.

    Quantificazione (Il problema di una)

    Per quanto riguarda l’autunno del 1943 la quantificazione delle vittime delle stragi è abbastanza semplice. L’ordine di grandezza è di circa 700 persone, di cui 500 in Istria e le altre nella Dalmazia annessa nel 1941.

    Più complessa è la situazione per quanto riguarda il 1945, perché le informazioni offerte dalle fonti risultano parziali, lacunose e talvolta contraddittorie. In linea di massima si può dire che nella prima decade di maggio l’esercito jugoslavo liberò dai tedeschi quanto rimaneva dello Stato indipendente croato (NDH), la parte di Slovenia annessa nel 1941 al Terzo Reich, quella annessa sempre nel 1941 all’Italia (provincia di Lubiana) e le province italiane di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume. Tutte queste aree vennero considerate territori liberati dallo straniero ed in esse venne immediatamente avviata “l’epurazione dei nemici del popolo”.

    Tale azione repressiva colpì in tutta l’area un numero di persone le cui stime variano dai 60 mila a più di 100 mila, comprese diverse migliaia di cittadini italiani, tutte accusate di reati quali: collaborazione con l’occupatore tedesco; collaborazione con l’occupatore italiano; adesione all’NDH; fascismo; partecipazione a formazioni armate e di polizia antipartigiane; ostilità di qualsiasi tipo nei confronti del movimento di liberazione; rifiuto del regime comunista; rifiuto della sovranità jugoslava fino all’Isonzo; partecipazione alla lotta contro i nazifascisti al di fuori degli organi del movimento di liberazione jugoslavo; collegamento con i servizi segreti inglese ed americano durante la guerra di liberazione. Nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume le stime degli arrestati variano dai 12 ai 15mila.

    I prigionieri slavi (belogardisti e domobranzi sloveni, ustascia croati, cetnizi serbi) vennero tutti eliminati nel giro di poche settimane tramite esecuzioni sommarie di massa ed i loro corpi furono gettati (di regola legati fra loro con il filo di ferro) nelle numerosissime

    cavità naturali e minerarie diffuse nelle aree carsiche della Slovenia e della Croazia. Campagne di recupero delle salme sono state avviate a partire dagli anni ’90 del ‘900 nelle attuali repubbliche di Slovenia e Croazia e risultano tuttora in corso.

    I prigionieri italiani vennero in parte eliminati subito (specie se appartenenti alle forze armate della RSI ovvero alle forze di polizia) con le medesime modalità di esecuzione collettiva ed occultamento delle salme di quelli slavi, in parte avviate invece nei campi di prigionia. Qui la mortalità fu assai elevata, per i maltrattamenti e soprattutto per la mancanza di alimentazione. Con la tarda estate iniziarono i rimpatri dei sopravvissuti, che durarono alcuni anni. Alcune migliaia di prigionieri non fecero ritorno (la cifra esatta è impossibile da determinare, anche perché i flussi di rientro dei militari arrestati nel maggio 1945 si incrociarono con quelli di altri prigionieri di guerra) ed in molti casi non si ha tuttora notizia della loro sorte. È possibile che le campagne di riesumazione in corso nelle repubbliche di Slovenia e Croazia offrano in prospettiva qualche indicazione in merito.

    Snazionalizzazione e persecuzione delle minoranze nazionali

    Fra le due guerre mondiali negli “stati per la nazione” europei (cioè quelli costituiti da un movimento nazionale per la propria nazione) le minoranze nazionali non vennero in genere considerate come una ricchezza, ma come un limite alla piena espressione della nazione fondatrice e come un ostacolo alla totale omogeneizzazione nazionale dello spazio statale. Per rimuovere il problema vennero adottate diverse strategie.

    Allontanamento forzato. Negli anni Venti e Trenta sembrò una misura troppo incivile nel cuore dell’Europa, mentre invece venne praticato ai suoi bordi, con le espulsioni e gli scambi di popolazione che riguardarono Grecia, Bulgaria e Turchia. Alla fine degli anni Trenta i tedescofoni dell’Alto Adige vennero per la maggior parte trasferiti in Austria sulla base di un esodo concordato con il governo tedesco. Con la Seconda guerra mondiale gli allontanamenti di massa vennero praticati sia dai tedeschi e dai loro alleati (come dagli ustascia croati a danno dei serbi) che dai sovietici. Nel dopoguerra gli allontanamenti di massa in forma di espulsione coinvolsero i tedeschi dall’Europa centro-orientale, mentre in forma di scambio di popolazioni riguardarono polacchi ed ucraini ed in forma di esodo gli italiani dalla Venezia Giulia e Dalmazia.

    Assimilazione. Venne in genere praticata a danno di gruppi minoritari ritenuti portatori di un’identità nazionale ritenuta sufficientemente debole da poter venire distrutta tramite politiche snazionalizzatorie: in questo modo i membri della minoranza sarebbero entrati a far parte della nazione dominante. Questo tipo di politica assimilatoria presuppone l’assenza di un pregiudizio razzista di tipo biologico nei confronti del gruppo minoritario. Venne adottata dal governo polacco a danno della minoranza ucraina e dal governo italiano a danno delle minoranze slovena e croata.

    Discriminazione. Fu adottata nei confronti di gruppi minoritari ritenuti non assimilabili, vuoi perché considerati razzialmente diversi, vuoi in quanto portatori di un’identità nazionale troppo solida. Fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale i nazisti attuarono politiche discriminatorie nei confronti degli ebrei. Negli anni Venti e Trenta, politiche discriminatorie di intensità diversa a danno dei tedeschi vennero adottate dai governi polacco e cecoslovacco.

    Dopo la Seconda guerra mondiale, i cittadini di sentimenti italiani residenti nei territori passati sotto il controllo jugoslavo furono oggetto di politiche sia assimilatorie a danno dei soggetti di origine etnica slava, sia discriminatorie a danno dei soggetti ritenuti incompatibili con il regime per ragioni sia politiche che sociali. Quanto alle norme di tutela delle minoranze nazionali emanate da alcuni Stati europei fra le due guerre mondiali, esse diedero scarsi risultati, sia per i loro limiti intrinseci che per le remore nella loro applicazione. Ad esempio, con il Trattato di Rapallo del 1920 l'Italia ottenne formali garanzie a difesa degli italiani viventi nei territori assegnati alla sovranità jugoslava, ma ciò non bastò ad impedire il collasso dell'italianità dalmata.

    Socialismo adriatico

    I socialisti triestini costituirono, nella seconda metà dell’Ottocento e fino alla Prima guerra mondiale, un’importante forza internazionalista contrapposta ai due partiti nazionali presenti in città, quello italiano e quello sloveno. Essi si riconoscevano nell’unità politica dell’area danubiana, perché vedevano nello Stato multinazionale la struttura politica più adatta agli interessi economici di Trieste e più consona alla sua “fisionomia binazionale”. Il partito socialista triestino era strettamente legato, nella ideologia e nella prassi, a Vienna e al socialismo austro-tedesco.

    La prospettiva federale, elaborata al Congresso di Brunn (1899) dalla socialdemocrazia austriaca come via d’uscita al radicalizzarsi delle lotte nazionali all’interno dell’Impero, fu recepita con entusiasmo dai socialisti italiani del Litorale, in nome dei valori dell’internazionalismo e della dimensione plurinazionale della monarchia danubiana. A differenza di ciò che accadde in Trentino (la figura del socialista e irredentista Cesare Battisti, in tal senso, è emblematica), i socialisti triestini si omologarono rapidamente al modello socialdemocratico austriaco tanto da assumere peculiarità rilevanti anche all’interno del socialismo italiano: il loro “essere italiani” si limitava, infatti, rigorosamente a un’accezione meramente linguistico-culturale, il che determinava l’assunzione di una linea nettamente antiirredentista. Ovviamente, tali posizioni ebbero successo fintanto che non si palesò il rischio della guerra: già con i conflitti balcanici, i popoli della futura Jugoslavia – anche nelle loro componenti socialiste – manifestarono l’esigenza di giungere alla indipendenza da Vienna. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, l’adesione della maggior parte dei partiti socialisti alle politiche dei rispettivi governi fece naufragare le ultime speranze dei fautori del socialismo adriatico, determinando effetti traumatici nelle loro coscienze e soprattutto un generale disorientamento, dovuto al fallimento della prospettiva sovranazionale che il socialismo triestino aveva posto come punto essenziale e fondante la propria azione.

    Molto simile alla situazione triestina era quella di Fiume, mentre in Istria il socialismo di lingua italiana sentiva maggiormente l’influsso del “socialismo latino” in chiave riformista.


    Spostamenti forzati di popolazione

    Si può parlare di spostamento forzato di popolazione quando un gruppo umano, definito secondo criteri variabili (religiosi, etnico-nazionali, razziali, ecc.) viene in vario modo costretto ad abbandonare il suo territorio d’insediamento storico a seguito delle politiche attuate da chi detiene il potere sul territorio medesimo. In linea generale, ciò può avvenire secondo tre tipologie, che non vanno confuse tra loro.

    Si ha una deportazione quando il potere si fa carico di organizzare il trasferimento del gruppo bersaglio (esempi: deportazioni staliniane, deportazione degli ebrei, deportazioni di civili slavi nei campi di internamento italiani durante la guerra in Jugoslavia). Si ha un’espulsione quando il potere emana una serie di norme che impongono ai membri del gruppo minoritario di abbandonare il territorio, pena sanzioni gravissime (esempi: l’espulsione dei tedeschi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dalla Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale). Si ha un esodo quando il potere crea sul territorio condizioni ambientali così pesanti da costringere i membri del gruppo bersaglio a “scegliere” di andarsene (esempi: l’esodo dei circassi dalla Crimea in epoca zarista; l’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e Dalmazia).

    Territorio libero di Trieste

    Il Trattato di pace conclusivo della Seconda guerra mondiale, entrato in vigore il 15 settembre 1947 e che assegnava alla Jugoslavia la gran parte della Venezia Giulia, prevedeva che la fascia costiera nord-occidentale dell’Istria, dal fiume Timavo al fiume Quieto, comprendente anche la città di Trieste, non venisse assegnata né all’Italia né alla Jugoslavia, ma andasse a costituire uno stato cuscinetto, il Territorio libero di Trieste (TLT). Il Trattato non diede vita al TLT, ma si limitò ad indicare la procedura attraverso la quale le Nazioni Unite avrebbero dovuto costituirlo. Tale procedura però s’incagliò a causa delle divisioni della Guerra fredda, che nel frattempo era scoppiata. Di conseguenza, l’area rimase sottoposta ad occupazione militare provvisoria: nella parte occidentale (zona A), anglo- americana; nella parte orientale (zona B), jugoslava.

    La situazione rimase bloccata fino all’autunno del 1954, quando il Memorandum di Londra fra Italia e Jugoslavia previde che nella zona A l’amministrazione italiana subentrasse a quella militare anglo-americana e nella zona B l’amministrazione jugoslava subentrasse a quella militare jugoslava. Si trattava di fatto della spartizione del TLT e subito dopo il governo di Roma e quello di Belgrado procedettero all’”annessione fredda” dei rispettivi territori. Il Capodistriano venne aggregato alla Slovenia, il Buiese alla Croazia, mentre la Zona A divenne la provincia di Trieste ed entrò a far parte della Regione autonoma Friuli – Venezia Giulia. Dal punto di vista formale, il nuovo assetto del confine italo-jugoslavo fu sancito nel 1975 dal Trattato di Osimo.

    Venezia Giulia

    Il termine è stato coniato nel 1863 dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli per denominare in maniera più patriottica l’area il cui nome ufficiale era Litorale Austriaco, formato dalla Contea di Gorizia, dalla Città immediata di Trieste e dal Margraviato d’Istria. Il termine Venezia Giulia fa riferimento alla teoria delle “Tre Venezie”, elaborata dal medesimo Ascoli, sulla base della comunanza della lingua veneta. Ascoli distingueva così una Venezia Propria (poi chiamata Euganea), una Venezia Tridentina ed una Venezia Giulia, situata fra la Venezia Propria e le Alpi Giulie e comprendente anche le isole del golfo del Quarnero (Cherso, Lussino, Veglia). Nelle lingue slovena e croata, le cui culture politiche non possiedono il concetto di Venezia Giulia, la formula viene tradotta con Julijska krajina (dove il termine krajina significa regione di frontiera), a sua volta resa in francese, in ambito diplomatico, con Marche Julienne, omettendo sempre il riferimento a Venezia.

    La Venezia Giulia venne annessa all’Italia a seguito del Trattato di Rapallo del 1920, meno Veglia annessa al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, ma con in più il Postumiese, già parte della Carniola austriaca, in quanto considerata ad occidente dello spartiacque alpino. Con il Trattato di Roma del 1924 entrò a farvi parte anche la città di Fiume, in epoca asburgica Corpus separatum del Regno d’Ungheria e dal 1920 al 1924 Stato Libero. Nell’ordinamento italiano la Venezia Giulia venne divisa nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume.

    Con il Trattato di pace di Parigi del 1947 la maggior parte della Venezia Giulia venne assegnata alla Jugoslavia, mentre in Italia rimasero soltanto Gorizia ed il Monfalconese, quest’ultimo già parte della provincia di Trieste. Tali residui vennero accorpati nella provincia di Gorizia. Trieste ed una striscia costiera dell’Istria nord-occidentale avrebbero dovuto costituire il Territorio libero di Trieste, ma la loro sorte rimase impregiudicata fino a che, con il Memorandum di Londra del 1954, l’Italia estese la sua amministrazione alla “zona A” del TLT, che divenne la nuova ed assai più ristretta provincia di Trieste, la più piccola d’Italia con soli 6 comuni.

    Nel frattempo, l’Assemblea costituente italiana aveva previsto la creazione di una Regione autonoma a statuto speciale, Friuli–Venezia Giulia, comprendente la provincia di Udine, appartenente al Veneto, e quanto sarebbe rimasto in Italia della Venezia Giulia. La previsione venne attuata nel 1963 e Trieste divenne capoluogo della nuova regione. La sovranità italiana sull’ex zona A venne formalmente riconosciuta a livello internazionale con il Trattato di Osimo del 1975.

  3. ESEMPI DI PERIODIZZAZIONE TEMATICA

    1. I RAPPORTI FRA ITALIANI E SLAVI. Al riguardo, è possibile scoprire abbastanza facilmente diverse fasi: nazionalizzazione (dalla metà del XIX secolo; la data simbolo di partenza è il 1848); competizione nazionale (a cavaliere del XIX e XX secolo); sopraffazione nazionale (dalla fine della Grande guerra alla metà degli anni ’50 del ‘900, con una fase a prevalenza italiana dopo la prima guerra mondiale ed una a prevalenza jugoslava dopo la seconda guerra mondiale); distensione (a partire dagli anni ’60 del ‘900, con il buon vicinato italo-jugoslavo e la collaborazione economica transfrontaliera, sino agli anni ’90, cioè fino al collasso della Jugoslavia); riconciliazione (a cavaliere fra XX e XXI secolo, con le iniziative di scrittura comune della storia e di conciliazione delle memorie).


    2. LE LOGICHE DELLA VIOLENZA che hanno segnato purtroppo il XX secolo. Qui è possibile individuare: una stagione di preparazione (negli ultimi decenni asburgici); una stagione delle fiamme (dallo scoppio della Grande guerra fino al 1922); una prima stagione di violenza di stato (durante il regime fascista, sulla quale si innesta una stagione terrorista antifascista ed irredentista jugoslava); una stagione delle stragi (dal 1942 al 1946, cioè dall’estensione alla Venezia Giulia delle pratiche stragiste nate sul fronte jugoslavo, attraverso le foibe del 1943, la repressione nazista, le foibe del 1945, fino alla strage di Vergarolla); una nuova stagione di violenza di stato nei territori sotto controllo jugoslavo fino al 1954, cui corrisponde una stagione di violenza di piazza in quelli sotto controllo anglo-americano.


    3. L'ACCOGLIENZA (LE FASI DELL’ESODO E DELL’ESILIO). Dopo aver recuperato

      informazioni relative ai luoghi di partenza e alle destinazioni degli esuli anche utilizzando riferimenti cartografici (vedi Cartografia) – utili in quanto di impatto più immediato con gli studenti – si può approfondire, tramite testimonianze dirette o indirette, orali o scritte, la tematica dell’accoglienza degli esuli: dove venivano alloggiati e quali erano le condizioni di vita, anche a seconda del periodo in cui lasciavano le loro terre; che tipo di rapporti si instaurarono con le persone del luogo, anche in considerazione diacronica; quali difficoltà incontrarono, anche in base all’età (ad es. accoglienza a scuola dei bambini/ragazzi, inserimento lavorativo e sociale degli adulti); quanto tempo ci volle per uscire dai campi profughi e inserirsi nel nuovo tessuto socio- economico; quale il vissuto attuale.


      Si allegano alcuni grafici sull’Esodo:

      • i “ritmi” tratto dal libro di Amedeo Colella L’esodo dalle terre adriatiche, rilevazioni statistiche, Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati, Roma 1958


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      • gli spostamenti e le rilevazioni dal confine orientale verso l’Italia e nei luoghi di arrivo nelle elaborazioni di Olindo Mileta Mattiuz


        Immagine che contiene testo, bigliettodavisita, screenshot  Descrizione generata automaticamente

        Luoghi di partenza Luoghi di arrivo


        Immagine che contiene mappa  Descrizione generata automaticamente Immagine che contiene mappa  Descrizione generata automaticamente


    4. SPAZIO ADRIATICO CONTESO. La presenza del mare ha fortemente segnato la storia della Venezia Giulia e delle vicine Istria, Fiume e Dalmazia, soprattutto se si considera la fascia costiera che dalla laguna di Grado si estende fino al golfo del Quarnero. Il mare è elemento fondamentale nella memoria e nella vita di questo territorio. In particolare, lo è l’Adriatico, mare conteso, come l’ha definito lo storico Giulio Mellinato, ma che non ha mai rappresentato un motivo di separazione tra terre e civiltà.

      Partendo da questa suggestione è possibile tracciare un percorso riguardante l’ambiente geografico, i confini e le frontiere, attraverso la linea del tempo (come suggerito dalla Scheda 3). Esistono efficaci altri approcci di studio dello spazio: ad esempio l’attenzione alla permeabilità o alla chiusura ai transiti delle persone e ai traffici commerciali rivela l’organizzazione interna degli stati e i rapporti reciproci e internazionali, ma anche le condizioni di vita dei singoli cittadini.

      L’Adriatico è stato per secoli la via d’acqua lungo la quale hanno viaggiato mercanti e pirati, beni e idee, intessendo trame di migrazioni che fatichiamo ad immaginare, nell’Occidente stabilizzato da qualche decennio. È stato anche una cerniera mobile – di unione o di allontanamento – tra Occidente e Oriente, tra romanità e universo greco-bizantino, tra latini e slavi, tra cattolicesimo, ortodossia ed islamismo, tra Venezia e Ottomani, ed in prospettiva tra Unione Europea e paesi dell’est Europa. È il mare della Mitteleuropa asburgica, nel quale si specchiano le Alpi, gli Appennini ed i Balcani, e attorno al quale si sono verificati innumerevoli cambiamenti di frontiere e di insediamenti. Interessante anche indagare di questo “spazio conteso” le consonanze artistiche, per esempio, tra Venezia e Bisanzio o l’amministrazione del territorio veneziana dal XVI al XVIII secolo o ancora quella del Litorale asburgico.

      Testi e immagini delle Schede 1, 2, 3 che seguono, sono tratti dal sito https://www.regionestoriafvg.eu


      SCHEDA 1: CARTA ALTO ADRIATICO


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      SCHEDA 2: AMBIENTE




      PAESAGGI

      7. Coste alte e coste basse

      1. Paesaggi alpini

        • Interno: Alpi Carniche

        • Esterno: Alpi Carniche + Alpi Giulie Occidentali

        • Paesaggio dolomitico: Dolomiti Pesarine

      1. Paesaggio prealpino

        • Cansiglio-Monte Matajur

        • Colline Prealpi Carniche

      1. Paesaggio delle colline subalpine

        • Anfiteatro Morenico del Tagliamento

      1. Paesaggio carsico

        • Monfalconese, triestino, istro-quarnerino

      1. Paesaggio alta e bassa pianura

        • Sorgive del Livenza

      1. Paesaggio lagunare

        • Lagune di Grado e Marano


      • Golfo di Trieste, Istria e Quarnero

      1. Isole

        • Isole lagunari (Barbana, Grado, …)

        • Isole della costa orientale (Brioni, Cherso, Lussino…)

      1. Paesaggio istro-quarnerino

        • Istria bianca, gialla, rossa

        • Le saline di Sicciole

        • Il Canale di Leme



      SCHEDA 3: CONFINI SULLA LINEA DEL TEMPO (vedi cartografia)


      CONFINI SULLA

      LINEA TEMPO

      Periodo storico

      1. X Regio

      2. Ducato longobardo del Friuli e Domini bizantini (metà VII secolo)

      3. Contea del Friuli e dell'Istria sotto il dominio carolingio (fine VIII, inizi XIX secolo)

      4. Marca veronensis et aquilegensis (XIX, X secolo)

      5. Patriarcato di Aquileia (1077)

      6. Friuli e Istria alla metà del XIV secolo

      7. Conquista veneziana (1420)

      8. Spartizione del Friuli tra Venezia e Austria (1508- 1523)

      9. Trattato di Campoformido (1797)

      10. 1866 annessione del Friuli all’Italia, il nuovo confine esclude il Friuli orientale

      11. Il patto di Londra (1915)

      12. La linea Wilson (1919)

      13. Trattato di Rapallo (1920)




      14. Trattato di Roma (1924)

      15. Annessioni 1941

      16. Ozak (1943)

      17. Linea Morgan (1945)

      18. Trattato di Parigi (1947)

      19. Memorandum d'Intesa (1954)

      20. Accordi di Osimo (1975)

      21. Slovenia e Croazia (1992)



      PAESAGGI

      Testo introduttivo

      Il quadro paesaggistico della regione Friuli Venezia Giulia e dell’area istro-quarnerina è molto vario. I paesaggi subalpini e prealpini presentano numerose combinazioni di clima, idrografia e vegetazione. Nel Monfalconese e nel Triestino, l’intensità dei fenomeni carsici permette di distinguere il paesaggio degli altopiani carsici, con caratteristiche simili ad alcune zone dell’Istria bianca (settentrionale) e dell’Istria rossa (meridionale). La pianura friulana, osservata ponendo attenzione alle condizioni idrologiche e del suolo, rivela il dualismo di pianura bassa, sotto la fascia delle risorgive, e pianura alta, nettamente differenziata per caratteristiche del suolo e morfologiche. Il paesaggio lagunare, tra l’Isonzo e il Tagliamento, con gli esempi di Grado e Marano costituisce il termine a mare di parte della fascia pianeggiante e il limite, nell’Adriatico, tra costa sabbiosa e quella rocciosa. Nella descrizione delle coste alte e di quelle basse, si considerano le peculiarità del Golfo di Trieste, della costa istriana meridionale e del Quarnero.


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      1. Paesaggi alpini

        I paesaggi alpini si differenziano da quelli prealpini per l’intensa azione del glacialismo quaternario, di cui si legge traccia nei solchi vallivi con i terrazzi morenici sovrapposti che si possono osservare sui fianchi. Il versante settentrionale ospita le vallate tra le quali si individuano quella del Tagliamento e la Valcanale. Si notano le quote rilevanti, come i 1400 m. a Sauris e Collina, i centri abitati permanenti più elevati in regione. Le differenze più evidenti, all’interno di questo paesaggio, si possono osservare fra i passaggi carnici da un lato, in cui si nota il contrasto tra le catene calcaree e dolomitiche e le dorsali argillo-scistose dell’interno.

        • Alpi Carniche

          Le Alpi Carniche rappresentano gran parte della sezione alpina regionale, allungandosi per un centinaio di chilometri tra il Cadore e la Sella di Camporosso. Il versante interno, cioè quello meridionale, in territorio italiano, è frastagliato da valli trasversali convergenti verso l’asse del Tagliamento. La Catena Carnica (serie di cime calcaree di oltre duemila metri) e le Dolomiti Pesarine costituiscono il settore settentrionale della sezione; le Alpi Tolmezzine, quello meridionale. Il limite che divide le due parti è costituito da un solco longitudinale residuo dell’idrografia preglaciale, che va dalla Forcella Lavardèt alla Sella di Camporosso, intersecando le valli trasversali del Degano, del But e del Chiarsò. Il Monte Còglians, con i suoi 2.780 m. è la cima più elevata della sezione alpina ma anche dell’intera regione. Il versante esterno delle Alpi Carniche è rappresentato dalla parte della sezione che digrada verso il territorio austriaco, nell’ampia vallata del Gail e di Lesach.

        • Alpi Giulie Occidentali:

          Come le Prealpi Carniche, le Alpi Giulie, nella sezione che si estende in territorio italiano, sono catene calcareo-dolomitiche di origine triassica e giurassica, situate tra i corsi del Fella e dell’Alto Tagliamento. Le vette maggiori hanno altitudini comprese tra 2.500 e 2.800 m. In particolare, si segnalano quattro vette che danno il nome ai rispettivi gruppi: il Mangart (2.668 m.), il Jof Fuart (2.666 m.), il Jof di Montasio (2.753 m.), punto più alto, e il Canin (2.587 m.).


        • Dolomiti Pesarine (paesaggio dolomitico):

          Inserite nel gruppo montuoso delle Alpi Carniche, prendono il loro nome dal centro di Pesariis, frazione di Prato Carnico. Il limite meridionale si individua nell’omonima valle, mentre il corso del Piave costituisce la linea centro-occidentale. Tre le cime principali, si ricorda la Creta Forata (2.462 m), che separa la Val Pesarina dalla conca di Sappada. Il nome della cima si deve al foro che percorre l’interno della conformazione, formando un lungo arco naturale.


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      2. Paesaggio prealpino

        I paesaggi subalpini e prealpini sono contraddistinti da una ricca varietà di combinazioni tra morfologia, idrografia ed elementi climatici. Le composizioni dei terreni permettono di distinguere nettamente le colline subalpine dalle vallate prealpine, più strette e profonde. Nel paesaggio prealpino, l’idrografia di origine montana produce frequenti fenomeni di carsismo. Il paesaggio delle Prealpi del Friuli ha infatti una morfologia influenzata dall’erosione fluviale, con valli molto profonde. Nelle Prealpi Carniche, calcaree e dolomitiche, il paesaggio è differente rispetto a quello delle Giulie, caratterizzate dalla presenza di marne e arenarie del Flysch. Gli altipiani prealpini, che vanno dal Cansiglio al Matajur, sono modellati dal carsismo.

        • Cansiglio-Monte Matajur

          Le Prealpi Carniche, che rappresentano i due terzi del settore prealpino regionale, sono costituite da rilievi che possono toccare i 2.703 m. della Cima dei Preti, nel Gruppo del Duranno. L’Altopiano calcareo del Cansiglio rappresenta il settore prealpino occidentale, insieme al Gruppo del Monte Cavallo ed è definito dalle linee idrografiche che si allungano dal settore alpino. Gli altri settori sono quello centrale (Prealpi di Claut e di Tramonti) e quello orientale (Prealpi dell’Arzino e di Cavazzo).

          All’interno delle Prealpi Giulie, sovrastante la valle del Natisone e la città di Cividale, il Monte Matajur (1.641 m.), si distingue per la caratteristica forma conica e per i fianchi di pendenza moderata. La cima è storicamente una linea di confine, prima tra il

          Patriarcato di Aquileia e i territori asburgici, poi tra Italia e Jugoslavia, infine con la Slovenia.


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      3. Paesaggio delle colline subalpine

        Le colline subalpine sono composte perlopiù di rilievi modesti, secondo una fascia che corre parallela alle catene montuose e, nella parte orientale, fra il Torre e l’Isonzo, costituiscono le propaggini delle Prealpi Giulie. Nelle colline terziarie, comprese tra i settori marginali, si individuano i cordoni quaternari dell’anfiteatro morenico del Tagliamento, a raccordare Prealpi Carniche e Giulie, le colline orientali e quelle occidentali.

        • Anfiteatro Morenico del Tagliamento

          L’ampia fascia collinare dell’anfiteatro morenico del Tagliamento si estende fra le Prealpi dell’Arzino e del Torre, unendo le Prealpi Carniche e quelle Giulie. L’origine si può collocare nell’era quaternaria ed è il risultato di trasporto e sedimentazione di un ghiacciaio. Si distinguono tre cerchie, che si allargano al di sotto della chiusa di Venzone. La cerchia esterna, che si estende fra Ragogna e Qualso, comprendendo le colline di San Daniele, Fagagna e Moruzzo, Brazzacco e Tricesimo, è caratterizzata da continuità della struttura mentre le due interne presentano un disegno irregolare.


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      4. Paesaggio carsico

        Nel settore sudorientale, oltre l’Isonzo, il paesaggio degli altopiani carsici, esempio che dà il nome al fenomeno che si osserva anche in altre parti del mondo, è conseguenza della fessurazione degli strati calcari, in cui si formano depressioni (doline) e piccoli inghiottitoi (foibe).

        • Monfalconese, triestino, istro-quarnerino

          Il carsismo rappresenta l’elemento caratterizzante della peculiarità geografica di questa parte della regione. L’area di paesaggio carsico si individua lungo la zona submontana delle Prealpi Giulie e Carniche. Alcuni laghetti carsici, tra cui quello di Doberdò, e il Monte San Michele, quello con elevazione massima (274 m.), sono compresi nella parte occidentale del Carso.

          La sezione del Carso che circonda la città di Trieste presenta elevazioni maggiori, con rilievi che superano i 600 m. Le formazioni marnoso arenacee del flysch che ricoprono i bordi esterni, formano colline e ripiani. La massima elevazione è quella del Monte Cocusso (672 m.). Nella Val Rosandra si conclude la progressiva elevazione che procede in direzione nordovest-sudest. Ulteriore caratteristica è la presenza di grotte collegate alla circolazione sotterranea del Timavo, la più profonda delle quali è l’abisso di Trebiciano (-329 m.); la più grande è la Grotta Gigante, la cui sala raggiunge i 115 m. di altezza e presenta uno sviluppo longitudinale di 280 m. mentre la profondità massima è di -121 metri.

          Nella parte settentrionale dell’Istria, la circolazione superficiale dell’acqua, su di un suolo a carattere calcareo, si limita ad alcune valli e conche in cui le acque meteoriche scorrono brevemente prima di inoltrarsi nel Carso ipogeo. Allo stesso modo, dalla soglia calcarea della parte meridionale della penisola, si originano torrenti ipogei con foci che spesso risultano subacque.


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      5. Paesaggio alta e bassa pianura

        La pianura friulana è caratterizzata da un dualismo delle condizioni idrologiche dovuto alle peculiarità del suolo, elemento che ha dei riflessi nella costituzione dei paesaggi

        della pianura bassa e della pianura alta. Il paesaggio della bassa pianura, che si integra a quello delle bonifiche novecentesche, è una fascia in cui si nota la presenza delle risorgive, originate dalle acque provenienti dalle Prealpi. La linea delle risorgive si individua al di sotto della linea che va da Monfalcone a Pordenone e raggiunge le polle del Livenza ai piedi del Cansiglio. Il paesaggio dell’alta pianura si distacca in modo evidente dalla zona delle risorgive e si distingue per i terreni di forte permeabilità e la presenza di coni di deiezione non consolidati a causa del continuo apporto dei bacini montani prealpini. L’area di terreni del conoide fra il Tagliamento e lo Judrio è connotata da una composizione che ha favorito una maggiore stabilizzazione.

        • Risorgive del Livenza

          Il fiume Livenza ha origine presso Polcenigo, a 40 m.s.m. dalle due polle maggiori del Gorgazzo e della Santissima, da quella minore del Molinetto, che scaturiscono alle pendici dell’altipiano del Cansiglio, alimentate dai corsi che si infiltrano nell’ellissoide calcareo.


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      6. Paesaggio lagunare

        Il paesaggio lagunare, nella parte di pianura che giunge fino al mare, piatto e dai contorni variabili, è compreso tra le foci dell’Isonzo e del Tagliamento, con le lagune di Grado e Marano fatte di cordoni sabbiosi (lidi) che delimitano masse d’acqua salmastra e, in situazioni di bassa marea, barene (gli spazi lagunari argillosi, periodicamente sommersi) e velme (le parti di fondale meno profonde e che quindi possono emergere in condizioni di bassa marea).

        • Lagune di Grado e Marano

          Le lagune di Grado e Marano fanno parte della sezione occidentale delle coste regionali, delimitata dagli apparati deltizi di Tagliamento e Isonzo, e determinano un paesaggio caratterizzato dalla presenza di isolotti, banchi arenosi e canali navigabili. Le lagune sono il risultato della sedimentazione degli apporti dei due fiumi e di corsi d’acqua minori provenienti dalla zona delle risorgive, nonché della minima profondità dell’Adriatico settentrionale. Sono caratterizzate da coste basse, sabbiose, dalla presenza di dune e generalmente paludose a causa dell’accumulo delle acque continentali e dell’andamento delle maree, determinando la variabilità della linea di spiaggia.

          Il raggio d’azione limitato delle maree impedisce la ridistribuzione al largo dei depositi fluviali che quindi rimangono a distanza ravvicinata dalla costa. Il bradisismo discendente dalla costa facilita però il passaggio delle sabbie verso i fondali, permettendo l’apertura di alcuni varchi tra mare e laguna.

          La laguna di Marano, chiusa dal cordone delle isole Marinetta, Sant’Andrea e Gorgo, si estende tra la penisola di Lignano e il canale dell’Anfora, confine tra le province di Udine e Gorizia. Quella di Grado ha come limiti il varco di Porto Buso e la Bocca di Primero e comprende, tra le altre, le isole di Grado, Primero, Barbana.


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      7. Coste alte e coste basse

        Il nastro delle coste regionali si allunga per circa 150 km tra la foce del Tagliamento e la valle di San Bartolomeo, attuale confine politico tra Italia e Slovenia, e contorna la sezione più a nord dell’Adriatico. Nella parte occidentale, tra il Tagliamento e l’Isonzo, si individuano le lagune di Marano e Grado, con coste basse e sabbiose, paludose e presenza di dune. Nel Golfo di Trieste, tra Punta Sdobba e Punta Salvore, nell’Istria croata, si osservano ulteriori golfi e insenature minori. Le coste alte di sommersione,

        calcaree prima, arenacee in una sezione successiva, compongono una linea rocciosa con altezze fino agli 80 metri delle falesie di Strugnano, tra Isola e Pirano, le insenature di Sistiana e coste a pendio con rigogliosa vegetazione.

        • Golfo di Trieste, Istria e Quarnero

          Il Golfo di Trieste inizia alla Punta Sdobba e si allunga fino alla Punta Salvore, nell’Istria croata e, al suo interno, si individuano le insenature minori del golfo di Panzano, la baia di Sistiana, quella di Grignano (formata dalla penisola calcarea di Miramare), il vallone di Muggia (limitato dalla penisola marnoso-arenacea di Sant’Andrea che, sull’altro lato, chiude il vecchio porto di Trieste) e quelli istriani di Capodistria e Pirano. Il Golfo di Panzano, fronte marittima dell’Agro monfalconese, si estende dalla Punta Sdobba alla foce del Timavo, con coste basse e barenose; nei tre bacini artificiali di Panzano, a sud di Monfalcone, si trova il cantiere navale e sbocca il canale Valentinis con il Porto Ròsega. Procedendo verso oriente, si incontrano le sorgive pedecollinari e parte del corso superficiale del Timavo, a San Giovanni, oltre i rilievi calcarei dei Monti Punta e Sant’Antonio. Superato il delta del Timavo, si distinguono: una sezione di coste calcaree fino alle sorgenti di Santa Croce, caratterizzate da forte inclinazione e, successivamente, una sezione di coste arenacee frastagliate e dalla struttura a pendio, con presenza di vegetazione.

          Il tratto successivo della costa istriana fino a Pola, rocciosa e aspra, comprende una serie di località che hanno sfruttato la morfologia del territorio in funzione dell’uso del mare. Le coste dell’Istria meridionale, alte, aspre e frastagliate si affiancano a una serie di scogli e di isolotti, peculiarità morfologiche che definiscono un interessante quadro paesaggistico della penisola.


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      8. Isole

        • Isole lagunari (Barbana, Grado)

          Tra le isole, si segnalano in particolare Barbana e Grado, nella laguna che prende il nome da quest’ultima. Barbana, all’estremità orientale della laguna, è nota per la presenza dell’antico santuario mariano, ha una superficie di poco più di 3 ettari ed è caratterizzata dalla presenza di pini marittimi, cipressi, olmi. Grado, ancora nella laguna orientale, si trova su di uno stretto cordone sabbioso all’estremità orientale. È collegata alla terraferma dai due pontili di Belvedere e di Primero. L’isola, che nell’antichità costituiva l’avamposto di Aquileia, è un noto centro turistico e termale, frequentato sin dal XIX secolo. Lo sviluppo urbanistico ha prodotto una netta divisione tra l’originaria cittadella veneta a occidente e la parte turistica, di recente costruzione.

        • Isole della costa orientale (Brioni, Cherso, Lussino)

          Nella costa orientale, oggi compresa nella Repubblica di Croazia, si individuano alcune isole particolarmente rinomate per la loro ricchezza. L’arcipelago delle isole Brioni (da Brevoni, nome risalente al VI secolo), nelle vicinanze di Pola, è costituito dall’isola Maggiore, l’isola Minore (Veli e Mali Brijun) e i numerosi scogli che emergono da sud verso nord: Orsera (Vrsar), Madonna del deserto (Pusti), Vanga (Krasnika Gronghera o Grunj), Gallia (Galija), Zumpin grande (Supinić)… L’isola Maggiore, 690 ettari, è Parco Nazionale dal 1983, ha forma a trifoglio, numerose piccole baie e una fitta vegetazione ed ospita il più grande abitato neolitico all’aperto della regione istriana.

          L’isola di Cherso, insieme a quella di Veglia, è la più grande dell’Adriatico, appartiene all’arcipelago del Quarnero e ha una superficie di poco più di 400 km2. Il canale di Faresìna la separa dall’Istria e numerosi sono i boschi di latifoglie e conifere che vi crescono. Nell’isola è presente il lago di Vrana che rifornisce di acqua dolce anche

          Lussino. Quest’ultima, parte della regione litoraneo-montana e dell’arcipelago del Quarnaro, è caratterizzata da una fitta vegetazione, è prevalentemente collinosa e la sua costa si snoda per circa 130 km. Nella parte settentrionale dell’isola sorge il monte Televrin, la cima più alta, con i suoi 588 m; nella parte meridionale, si individua il monte Stan (110 m). Si segnalano, inoltre, il centro di Lussinpiccolo, con il suo porto e i monti di Lussingrande (il Grgoščak supera i 200 m.). Altre isole della costa occidentale dell’Istria sono quella di San Nicola (Sveti Nikola, di fronte Parenzo), San Giorgio (Sućuraj, di fronte Orsera), Santa Caterina e Sant’Andrea (Sveta Katarina e Sveti Andrija, di fronte Rovigno).


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      9. Paesaggio istro-quarnerino

        Nell’area istro-quarnerina si individuano tre tipi di paesaggi, secondo una classificazione ormai classica. L’Istria bianca (settentrionale, montana), si estende fra la strada Trieste-Fiume e il ciglione che dall’altipiano di San Servolo (Socerb) arriva a Pinguente (Buzet) e Rozzo (Roč), secondo un corso che dalle foci del Risano raggiunge Moschiena sul Quarnero. L’Istria bianca è costituita da un altipiano di circa 500 metri s.l.m. che conferisce la bianchezza all’area grazie ai calcari cretacei e, procedendo verso est, viene sostituita da catene montuose il cui punto più alto è il Monte Maggiore (Učka) con i suoi 1396 m. La vegetazione non è particolarmente ricca e le boscaglie sono rare. Si ricordano le catene della Vena e quella dei Caldiera. Nell’Istria bianca si distinguono le regioni della Cicceria (Cićarija, catena dello Sbeunizza, monti della Vena) e della Liburnia (catena dei Caldiera fino alla parte costiera del Quarnaro).

        L’Istria gialla (o verde o, ancora, grigia, il predicato fa riferimento al terreno delle zone marno-arenacee comprese tra il vallone di Muggia e la valle dell’Arsa) è compresa tra la linea meridionale dell’Istria b. (la congiungente S. Servolo-Pinguente-Moschiena) e la linea che passa da Umago (Umag), Pisino (Pazin) e Fianona (Plomin). Anche in seguito alle azioni di erosione delle acque di superficie, è caratterizzata da un’area collinare di vegetazione rigogliosa. Proseguendo verso il mare, si individuano i valloni di Muggia, Capodistria, Pirano. La quota media del territorio è di circa 300 metri e i picchi non raggiungono i 500 metri.

        L’Istria rossa (meridionale, dal terreno color rosso mattone che ricopre parte della costituzione calcarea) presenta una costituzione calcarea e diffusi fenomeni carsici, mostrando una somiglianza con l’Istria bianca. L’elemento caratterizzante è però costituito dai tavolieri di Buie (Buje), Parenzo (Poreč), sulla costa occidentale; Pola (Pula), all’estremità meridionale, e Albona (Labin), sulla costa orientale. L’area è inoltre corrugata dai corsi del Quieto (Mirna), del Leme (Limski kanal) e d’Arsa (Raša). Le condizioni climatiche favorevoli hanno permesso lo sviluppo turistico lungo la costa.

        • Le saline di Sicciòle (Sečovlje)

          La piccola località di Sicciole è nota per la presenza delle uniche saline ancora attive della costa istriana, all’interno del Golfo di Pirano, lungo il confine tra Slovenia e Croazia. Le saline rappresentano la parte marina della valle di Sicciole. All’interno, quella del Dragogna è caratterizzata dalla presenza di vigneti e frutteti. L’origine delle saline è da ricercarsi nell’apporto dei fanghi argillosi del Dragogna e la presenza è attestata da fonti antichissime.

        • Il Canale di Leme (Limski zaljev)

      Il canale di Leme, parte finale della Draga (nella parte centrale della costa occidentale), che l’Alberi definisce “l’organismo morfologico più interessante nell’Istria ed anche il

      meno conosciuto”, è una valle marina che si prolunga fino a quella di Canfanaro (Kanfanar), sebbene sia parte (12 km) di una depressione che si configura come continuazione della valle d’erosione di 35 km che arriva fino a Pisino. Il Canale presenta un orientamento est-ovest, una profondità che raggiunge anche i 30 m. e una larghezza oscillante tra i 500 e i 700 metri. Le alte sponde, anche 100 m., a causa della diversa disposizione, presentano zone di bassa macchia mediterranea (sponda settentrionale, esposizione a sud) e alberi a foglia caduca (sponda esposta a tramontana).

    5. I SILENZI SU ESODO E FOIBE hanno contrassegnato il secondo dopoguerra. Si tratta di soffermarsi su tre momenti:

      1. il “silenzio internazionale”, legato all’anno 1948, quando Stalin e il Cominform rompono i rapporti con Tito, accusato di deviazionismo, e così la Jugoslavia diventa per l’Occidente un interlocutore da non irritare. Da quel momento non c’è più interesse ad avere notizie sugli infoibati, né spiegazioni sul perché centinaia di migliaia di persone stiano abbandonando i territori dell’Alto Adriatico;

      2. il “silenzio di partito”: il PCI evita di parlare dell’argomento per non rendere evidente la propria posizione, legata anche alle indicazioni di Mosca, su quanto avviene lungo il confine nordorientale;

      3. il “silenzio di Stato”: l’Italia ha scatenato la guerra accanto alla Germania nazista, perdendola, ma nel 1945 – puntando sulla partecipazione alla Resistenza – ha voluto rappresentarsi come vincitrice, cercando di nascondere le proprie responsabilità del periodo 1922-1943. Nessun partito politico italiano ha interesse – in quel momento e per i decenni successivi – a rendere nota una questione che farebbe non solo aprire i conti con il passato ma anche emergere responsabilità importanti, rendendo palese come l’Italia non abbia vinto la guerra ma l’abbia in realtà persa. Ne sono dimostrazione sia la cessione dell'Adriatico orientale sia le vicende dell’esodo, che dovevano essere taciuti per non pregiudicare l’autorappresentazione come Paese vincitore.

    6. LE CANZONI DELLA PATRIA

      Il percorso si propone di ripercorrere la storia della Frontiera Adriatica attraverso brani musicali (opere, canzoni, ecc.…) oramai sconosciuti agli studenti: le canzoni risorgimentali, quelle della Grande guerra, i brani d'opera usati a fini patriottici, le canzoni irredentiste, fino a Vola colomba e le canzoni di Sergio Endrigo.

      Agli studenti si potrebbe proporre una lista di brani musicali significativi individuati dal docente con l’intento di farli ricercare sul web (musica, testo, video). Successivamente, il docente accompagna gli studenti nella ricerca del contesto all’interno del quale nasce il significato di un brano, di un testo ed eventualmente il suo uso politico. Infine, gli studenti potrebbero interpretare e spiegare alcuni brani emblematici da loro scelti ai pari di altre classi.

  4. ITINERARI STORICO-ARTISTICO-LETTERARI

    Si propongono in questa sezione alcuni spunti operativi, già sperimentati in occasioni didattiche, di percorsi e itinerari alla Frontiera Adriatica con baricentro la città di Trieste o il territorio di confine. Essi sono complementari a diversi ambiti disciplinari (storia, letteratura, arte…) e rispondono ad alcuni temi, tra cui: pace e guerra, Mitteleuropa, la complessità, il confine, senza alcuna pretesa di esaustività, ma come traccia su cui costruire ulteriori approfondimenti.

    Complessivamente le proposte prevedono percorsi di visita a diverse località di confine durante i quali è possibile programmare attività laboratoriali e di riflessione sulle complesse vicende con un approccio interattivo basato sulla commistione tra fonti tradizionali e multimediali.

    Rispondono a diversi obiettivi, tra cui:

    MODALITÀ E DURATA DEL PERCORSO

    I laboratori possono durare un’intera giornata e svolgersi a Trieste o a Gorizia/Nova Gorica oppure articolarsi in più giornate spostandosi nell’Istria limitrofa: il percorso può dunque essere calibrato a seconda delle esigenze, comprendendo tappe note e meno note ma comunque significative per la storia e la cultura dell’area di confine (Caporetto, Redipuglia, Sinagoga di Trieste, Risiera di San Sabba, Centro profughi di Padriciano, Foiba di Basovizza …)

    STORIA

    1. PACE E GUERRA DELLE NAZIONI

      L’itinerario è centrato sui luoghi della Grande guerra, ma consente anche una serie di puntate sui luoghi della riconciliazione fra Italia e Slovenia, come pure su di alcuni siti archeologici rilevanti per la storia del Caput Adriae.

      Gorizia

      Museo della guerra: centrato sulla Prima guerra mondiale; piazza della Transalpina (luogo di divisione/collegamento fra Gorizia e Nova Gorica).

      Vallone

      Monte San Michele: Centro visite con esplorazione virtuale; fortificazioni italiane ed austriache; cippo della Honved ungherese; luoghi ungarettiani.

      Monte Brestovec: percorso didattico alle trincee e cannoniere, con allestimento sulle memorie dolenti di tutte le forze in campo; con visita guidata, possibile vedere anche le fortificazioni (non ancora sistemate) della Guerra fredda.

      Redipuglia

      Monte Sei busi: Museo all’aperto delle Dolina dei bersaglieri.

      Fogliano: Museo multimediale della Grande guerra.

      San Giovanni di Duino

      Monumento ai Lupi di Toscana: ricordi dannunziani (Randaccio)

      Area sacra delle bocche del Timavo: percorso naturalistico e chiesa di San Giovanni in Tuba.

      Possibile integrazione in Slovenia: Caporetto: Ossario dei caduti italiani e Museo della battaglia.

      Possibile integrazione storico/archeologica: Aquileia: rovine romane e basilica

      (Escursione giornaliera con partenza e ritorno a Gorizia/Trieste. Le integrazioni richiedono una giornata supplementare. Può venir abbinata all’itinerario 2).


    2. ISTRIA BIANCA, ROSSA E VERDE

      L’itinerario esplora le tre aree in cui convenzionalmente si divide la penisola istriana sulle base delle diversità ambientali, coniugando le dimensioni paesaggistica, storica ed artistica.

      ISTRIA BIANCA

      Così chiamata per il terreno calcareo. Occupa la parte settentrionale della Penisola, cioè la fascia montuosa e carsica che corre fra Trieste e Fiume (Monti della Vena, Altipiano dei Birkini). Una sua propaggine (monti Caldiera) costituisce la costa orientale della Penisola.

      Cristoglie/Hrastovlje (alle spalle di Capodistria): veduta del grande ciglione carsico; chiesa fortificata contro i turchi (tabor) con affreschi cinquecenteschi; ferrovia di Capodistria (collegamento storico con il Memorandum di Londra).

      ISTRIA VERDE

      Così detta per la prevalenza di copertura boscosa. Paesaggio collinare che ricorda quello toscano, con le città murate in cima alle alture.

      Castello di Pietrapelosa (nei pressi di Pinguente): domina una valle che conduce a quella del Quieto; presidio veneziano, appena restaurato.

      Foresta di Montona (sul fondo della valle del Quieto): tipico “bosco di San Marco”, utilizzato per rifornire di legname la flotta della Serenissima.

      Montona: scenografica cittadina fortificata veneziana a dominio della valle del Quieto, lato sud; vista sulla valle sottostante, ipotizzato confine del Territorio libero di Trieste.

      Grisignana: cittadina medievale restaurata di fronte a Montona (quindi zona B del TlT); unico comune dell’Istria (in Croazia) ancora a maggioranza italiana; vista sulla valle e Montona.

      ISTRIA ROSSA

      Ben riconoscibile dal suolo ferruginoso, divenuto simbolo di istrianità. Nel corso del trasferimento dalla valle del Quieto a Parenzo si possono osservare i campi di terra rossa ed è possibile transitare per il paese di Santa Domenica di Visinada, nel cui cimitero riposa la salma di Norma Cossetto.

      Parenzo. Città d’impianto romano ben riconoscibile e di chiarissima impronta veneziana. Basilica eufrasiana con mosaici bizantini, tipica espressione della koiné adriatica altomedievale.

      (Escursione giornaliera con partenza e ritorno a Trieste/Gorizia. Può venir abbinata all’itinerario 1).


    3. TRIESTE E LA STORIA DEL ‘900

Il percorso storico prevede l’intreccio di alcuni periodi significativi per la storia di Trieste:



  1. TRIESTE

    ARTE

    Afferma Umberto Saba nella sua autobiografia che “nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850 “. Questo a proposito dell’appartenenza culturale all’Italia di un triestino che in effetti all’epoca si sentiva uno scrittore “posto al crocevia di più popoli “, come disse invece Svevo. L’ atmosfera che circola ancora oggi in alcuni caffè od osterie cittadine parla di una vecchia Europa tra ‘800 e ‘900, che si sta dissolvendo, di un crogiuolo di etnie e lingue circolanti nelle vie e nei luoghi di culto (sinagoga ebrea, chiesa greco-ortodossa,

    chiesa luterana, chiesa serbo-ortodossa etc.), di una diffusa cultura a più livelli ancora intrisa di sentimenti nostalgici verso l’Austria e di una profonda sensibilità verso l’arte in generale.

    La visita nella “città del vento” “città del caffè” “città dell’operetta” e di tanto altro cercherà di attraversare i profumi, i colori e la variegata multiculturalità di quello che fu “il Porto dell’Impero” partendo altresì da un’analisi di quegli che sono stati e sono gli aspetti che ne hanno determinato , anche drammaticamente, la unicità.

    La concessione nel 1719 del Portofranco alla città, sbocco geografico naturale dell’Impero Asburgico sul mare, dà il via ad un lungo periodo di prosperità: l’abolizione delle dogane richiama da tutta l’Europa, ma anche dal Mediterraneo, un gran numero di imprenditori e mercanti che aumentano il benessere del cittadino, lo sviluppo urbano (vedremo il borgo teresiano voluto dall’imperatrice Maria Teresa e il famoso Castello di Miramare “nido d’amore costruito invano” per l’arciduca Massimiliano d’Austria e Carlotta del Belgio) e favoriscono un incremento demografico senza precedenti. Nascono grandi compagnie di navigazione come il Lloyd Triestino, di assicurazioni come le Generali e la Ras e di nuove industrie (la famiglia della moglie di Italo Svevo gestiva -e lo farà anche lui stesso- una fabbrica di vernici sottomarine).


    Architettura

    Neoclassico: Palazzo Vecchio della Borsa, Palazzo Costanzi, Palazzo Eisner Civrani, Casa Fontana già Pitteri, Palazzo del Hotel De La Ville, La Lanterna, Villa Necker, Rotonda Pancera

    Palazzo Carciotti, Palazzo Pitteri, Chiesa di Sant’Antonio Nuovo, Chiesa Greco- Orientale di San Nicolò Palazzo Stratti, Palazzo del Tergesteo

    Liberty : Banca di Praga, Casa Bavesi, Casa Terni – Smolars, Salone degli Incanti – Ex Pescheria Centrale, Casa Bartoli, Casa de Stabile, Casa Valdoni, Hotel Balkan, Palazzo Vivanti-Giberti / Cinema Ambasciatori, Stazione di Campo Marzio

    Eclettico: Municipio / Palazzo del Comune, Palazzo delle Poste, Palazzo Gopcevich.


    Caffè Storici

    Nei caffè storici di Trieste, grazie alla conservazione degli arredi originali, si può ancora percepire quell'atmosfera mitteleuropea che attirava in passato storici, letterari e politici: James Joyce, Umberto Saba, Italo Svevo frequentavano abitualmente le caffetterie della città, alcuni Caffè divennero nell'800 il punto di ritrovo per gli irredentisti, altri durante la prima guerra mondiale furono convertiti in stamperie per passaporti falsi per i patrioti antiaustriaci, altri ancora furono utilizzati come quartier generale della Marina Britannica nel secondo dopoguerra.

    Caffè degli Specchi, Caffé Urbanis ,Caffé Torinese, Pasticceria Pirona, Caffé San Marco, Pasticceria La Bomboniera, Caffé Stella Polare, Caffé Tommaseo, Harry’s Grill

    Luoghi di culto

    Trieste con il suo fiorente porto è stata nei secoli un crocevia di persone e culture ed è possibile rendersene conto ancora oggigiorno, soffermandosi ad osservare i vari edifici religiosi di tante confessioni diverse, che si possono incontrare nel centro. Sul lungomare cittadino tra la Piazza Unità d'Italia e il Canal Grande si trovano la Chiesa Greco-Ortodossa di San Nicolò dei Greci, luogo simbolo per la ancora numerosa e attiva comunità greca locale, che presenta una facciata con due campanili e un interno ricchi di arredi. Proseguendo a poca distanza, seguendo il canale, si incontra la Chiesa Serbo-Ortodossa di San Spiridione, che con le cupole azzurre e lo stile bizantino, merita una visita anche per i decori che conserva al suo interno. Alla fine del Canale di Ponterosso, spicca l’imponente colonnato sulla facciata della Chiesa di Sant’Antonio Nuovo, che assieme alla Cattedrale di San Giusto, è una delle più importanti chiese cattoliche della città. Sempre in questa zona, entrando nel Borgo Teresiano, si trova la Chiesa Evangelista Luterana con le caratteristiche guglie.

    A poca distanza si può raggiungere la Sinagoga di Trieste, uno dei templi israelitici più grandi e importanti d’Europa. Altri luoghi d’interesse che si trovano sempre nel centro di Trieste sono la piccola Basilica di San Silvestro, la più antica chiesa di Trieste, diventata di proprietà della Comunità Elvetica (alla quale si è poi affiancata anche la Comunità Valdese) e la Chiesa Anglicana di via San Michele.


  2. ISTRIA (Rielaborazione da LA CULTURA DEGLI ITALIANI DELL' ISTRIA E DI FIUME (SAGGI E INTERVENTI) - CENTRO DI RICERCHE STORICHE ROVIGNO)

    Ogni città istriana racconta la propria storia, una storia complessa ricca di preziose tracce di cultura e arte. La diversità, la dimensione e la ricchezza rispecchiano la storia dell'Istria, luogo di incontro di molti popoli e delle loro culture.

    I Liburni, gli Histri, i Greci, i Celti, i Romani, gli Ostrogoti, i Bizantini, i Longobardi, i Croati, gli Sloveni, i Franchi, i Veneziani, gli Austriaci, gli Italiani con la loro presenza, i costumi e il loro lavoro, hanno lasciato testimonianze che gli attuali abitanti dell'Istria cercano oggi di preservare e nobilitare attraverso i numerosi monumenti culturali e storici che con orgoglio testimoniano mille anni di ricca storia.

    Reperti preistorici che testimoniano l’insediamento dei primi abitanti sono stati trovati nella ghiaia della grotta di San Daniele (Šandalj) vicino a Pola, dove si trovano le più antiche testimonianze dell’Homo erectus in Europa. Del periodo protostorico ci sono pervenuti moltissimi resti che si possono trovare in tutto l'Istria. I più famosi sono i castellieri, ovvero villaggi fortificati eretti su colline, le cui cortine sono costruite con la tecnica del muro a sacco. Moncodogno che si trova vicino a Rovigno, è uno dei siti archeologici più conosciuti.

    Il tessuto culturale della penisola istriana è per lo più adornato da antichi monumenti romani. L'Anfiteatro di Pola è il monumento più famoso e importante nonché simbolo di Pola, in esso avevano luogo i combattimenti dei gladiatori e

    per la sua forma e le imponenti dimensioni è considerato uno degli anfiteatri romani meglio conservati al mondo. Al centro della medesima città, sulla principale piazza Foro, si erige il Tempio di Augusto, tempio romano dedicato alla dea Roma e all’imperatore Augusto. A Pola troviamo anche L’Arco dei Sergi, spesso chiamato Golden Gate, costruito con grandi blocchi di pietra ed eretto in memoria dei tre fratelli della famiglia Sergi, i quali hanno ricoperto alte cariche nelle magistrature civiche.


    La Basilica Eufrasiana, a Parenzo, con i suoi splendidi mosaici, testimoni della koiné artistica bizantina dell’Alto Adriatico, è stata inserita nel 1997 dall’UNESCO nella lista del patrimonio mondiale della cultura.


    Un ricco patrimonio culturale scoperto attraverso l'arte medievale

    La storia delle chiese medievali quali, S. Barnaba a Visinada, S. Fosca a Batvači,

    S. Martin a San Lorenzo e S. Margareta vicino a Dignano è stata creata con le loro pareti che raffigurano scene bibliche, ma anche questioni universali sul destino umano sotto forma di affreschi istriani. Gioiello della pittura murale medievale, particolarmente conosciuto, è la Danza dei Morti che si trova nella chiesa di S. Maria nei pressi di Vermo, e un tour non dovrebbe mai finire prima di fare una visita alla più grande chiesa istriana, quella di S. Biagio a Dignano, che vanta una collezione di arte sacra contenente 730 opere e oggetti del periodo che va dal V al XIX secolo e i conservati corpi mummificati di alcuni santi.

    Uno dei luoghi più pittoreschi dell'Istria è la città vecchia di Rovigno, che conserva ancora la struttura dell'antico borgo medievale d’impronta veneziana. Situata su uno stretto promontorio, è caratterizzata proprio per questo dai tipici palazzetti veneziani e da edifici piccoli e addossati l'uno all'altro, da calli strette e tortuose. Da vedere è anche il porto, dove all'alba si possono ancora scorgere i pescatori svolgere le loro mansioni, esprimendosi talvolta negli originari dialetti istrioto (romanzo) ed istro-veneto.

    Restando nella Istria ora in Slovenia limitrofa a Trieste, Pirano, patria di Giuseppe Tartini, è sicuramente una piccola perla dell’Adriatico, riuscita a far fortuna trasformandosi in nientemeno che la riserva di sale della Serenissima, una funzione strategica per l’epoca. Anch’essa ha un’impronta tipicamente veneziana, come tutte le città costiere istriane, che possono venir considerate come quartieri periferici della Serenissima, dalla quale distavano piò o meno una giornata di navigazione.

    LETTERATURA

    Claudio Magris definisce Trieste “letteratura”: statue, musei, itinerari - dedicati agli scrittori che vi nacquero o vi vissero o, semplicemente, l’amarono e l’amano di un amore profondo - offrono l’opportunità di accostarsi ad un mondo culturale per certi versi ancora incontaminato.

    Il percorso letterario prevede un incontro attraverso alcuni momenti significativi per la cultura di Trieste (e dell’Istria) cui si possono aggiungere interessanti divagazioni come il Sentiero Rainer Maria Rilke, intitolato al poeta boemo, nella Riserva naturale delle Falesie di Duino che, in due panoramici chilometri affacciati sul Golfo di Trieste, da Sistiana arriva a Duino (nel Castello di Duino Rilke compose nel 1912 le sue celebri Elegie Duinesi).

    Questi sono alcuni degli itinerari letterari percorribili:


  3. DALMAZIA

    L’itinerario si snoda lungo un percorso di 155 km. circa, direzione Nord/ Sud, lungo la costa della Dalmazia che, per le sue peculiari caratteristiche morfologiche, potrebbe presentare problemi di viabilità per eventuali visite guidate (malgrado lo snodo di una recente autostrada).

    Pertanto, le indicazioni sono limitate a quei siti (città, in particolare) di maggiore interesse storico ed artistico, raggiungibili anche via web.


SITOGRAFIA ORIENTATIVA

Archivio – Museo Storico di Fiume (Roma) http://www.fiume-rijeka.it

Atlante Dizionario della Grande Guerra a Trieste e nel Litorale http://www.atlantegrandeguerra.it

Centro di Documentazione Multimediale della cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata (CDM) http://www.arcipelagoadriatico.it

Centro di Ricerche Storiche di Rovigno (Croazia) http://crsrv.org Coordinamento Adriatico APS http://www.coordinamentoadriatico.it Il confine più lungo (mostra virtuale) https://confinepiulungo.it

Istituto Regionale per la Cultura Istriana-fiumana-dalmata (Trieste) http://www.irci.it

Noi Esuli http://lab.gedidigital.it/gnn/ilpiccolo/noi-esuli

Regione Storia Friuli Venezia Giulia http://www.regionestoriafvg.eu

Scuola e Confine Orientale http://scuolaeconfineorientale.it Società di Studi Storici e Geografici di Pirano (Slovenia)

http://comunitapirano.com/chi-siamo/societa-studi-storici-e-geografici


Storia della Venezia Giulia http://www.giulianinelmondo.it/download/storia_veneziagiulia .pdf


Podcast:

La lunga storia del Confine Orientale http://anchor.fm/federesuli

Così lontani, così vicini. Le storie dei grandi campioni giuliano dalmati http://www.anvgd.it/podcast/podcast-cosi-lontani-cosi-vicini/

Indice delle figure:


Figura A

Frontiera Adriatica

Figura 0

Italia-Slovenia-Croazia 1992

Figura 1

Epoca romana

Figura 2

Ducato longobardo

Figura 3

Contea del Friuli e Marca Veronensis

Figura 4

Patriarcato Aquileia

Figura 4bis

L’Istria alla fine del XIII secolo

Figura 5

Confine tra Ve e Aut

Figura 6

Trattato di Campoformido - 1797

Figura 7

Province Illiriche - 1809-1813

Figura 7bis

Province Illiriche

Figura 8

Lombardo-Veneto e Illiria

Figura 9

Italia e Austria

Figura 9bis

Confine italo-austriaco

Figura 10

Patto di Londra - 1915

Figura 11

Linea Wilson - 1919

Figura 11bis

Ipotesi per il confine italo-jugoslavo - 1919-1920

Figura 12

Trattato di Rapallo - 1920

Figura 12bis

Londra e Rapallo

Figura 12ter

Zara

Figura 12 quater

Lo Stato libero di Fiume - 1920-1924

Figura 13

Accordi di Roma - 1924

Figura 13bis

Fiume italiana

Figura 14

Annessioni italiane - 1941

Figura 14bis

Annessioni e occupazioni nei Balcani

Figura 14ter

Governatorato della Dalmazia - 1941-1943

Figura 15

Ozak

Figura 15bis

Le foibe istriane - settembre 1943

Figura 16

La corsa per Trieste – 30 aprile 1945

Figura 16bis

Accordi di Belgrado - 1945

Figura 17

Trattato di Parigi - 1946

Figura 17bis

Territorio Libero di Trieste 1947-1954

Figura 18

Spostamenti di popolazione - grafico

Figura 18bis

Esodo: luoghi di partenza

Figura 18ter

Ritmi dell’esodo

Figura 18quater

CRP in Italia

Figura 19

Memorandum di Londra 1954

Figura 19bis

Prima e dopo il Memorandum di Londra

Figura 20

Trattato di Osimo 1974